2 Giugno 2006 | Cultura e società

Il mondo reale


Da un lato carne, ossa ed un po’di anima. Dall’altro il cibo, la sedia ed il tavolo nella stanza; al di là della finestra di rado un’auto, il giornalaio, un qualcosa da percorrere, un qualcosa, una pianta, un prato, che ti segnino il variare delle stagioni. Questa è realtà. Ci puoi aggiungere i colori. Sarà tutto strisciato di rosso, un rosso che ti assale e ti deforma se è in corso una reazione da stress, ed il dolore diventa l’urlo di Munch. Sarà tutto intinto di un nero colante che a poco poco svanisce in un bianco cadaverico se ti scappa via, giù nella discesa, la speranza di perdere il dolore, e non la raccogli più. Ed agli altri che ti vedono evocherai ambivalenze: la voglia di accarezzarti, la voglia di guardare dall’altra parte. Questo è il mondo reale. Te ne imbatti nelle case dei pazienti, nelle case di riposo, in ospedale. Nutrire la carne, rafforzare lo spirito, animare le stanze, allargare i percorsi, ricolorare la vita, spegnendo i fuochi del dolore ed illuminando le tenebre della depressione è il fare di chi conosce la geriatria e sa essere medico della residenzialità.

 

I vecchi, i vecchi malati possono volere un medico così, ma se non hanno la forza per pagarselo, quel medico deve essere capace di affermarsi agli occhi della società, perché essa lo possa ritenere utile a se stessa e se ne permetta il pagamento. Produrre salute è, in fine, curare le ambivalenze di chi, non vecchio e non malato, chiede a te, medico, di non soffrire per la colpa di non sentirsela di accarezzare quella pelle rossa o nera o cadaverica, di non essere accusato se vai dall’altra parte. Tu ci provi, qualche volta rendi il rosso non più ustionante, riesci a slavare il nero, a ripianare la discesa. Il più delle volte non fai abbastanza, eppure misuri, misuri su, misuri giù e poi su e poi giù ancora. Ma quelli che guardano continuano ad avere le loro ambivalenze. E se le tue misure non servono a togliere il tormento di una società rispetto ai vecchi malati, perché misuri? Toglili l’accusa di non guardarlo, prenditelo, dagli spazio, accendi le batterie della carrozzella, costruiscigli una nuova città.

 

Ecco che cosa è la RSA. Ecco che si aprono nuove misure, forse non tradizionali, che a scuola non sono state insegnate, ma che della tua vita di medico saranno il timbro e da esse potrai trarre soddisfazioni e gratificazioni. Misura se sei servito a far meno infelici alcune Esistenze: allora imparerai ad usare ed imporre agli altri che si misuri la felicità e che il medico è volto ad aiutare gli altri per raggiungerla, anche quando la malattia resta. E spesso per fare felicità devi operare su chi è vicino, laico o paludato, perché comprenda il significato dell’Esistenza del tuo paziente.

 

Le misure servono, sono la base del ragionamento empirico sul quale si basa il pensiero scientifico accolto come fondamento della Scienza Medica. Tuttavia, chi opera nel reale conosce una realtà in cui le misure disponibili non comprendono ancora tutto ciò che è misurabile. Il geriatra che affronta luoghi che trasudano l’indegnità di Esistenze non modificabili deve continuare a misurare, perché quello è il suo metodo, ma sempre ricordando l’obbiettivo che dalla misura possa scaturire il significato del suo impegno. E talora il suo impegno si può misurare nella capacità di modificare l’indegnità in una categoria positiva, in una vita degna ancora di essere vissuta, riconosciuta dagli altri come utile ad un mondo civile. E se la via della felicità è ardua, il dominare il dolore, lo stare accanto per difendere l’incapace dagli insulti di una società che lo sprezza, rasserenare, far riconoscere il diritto alle cure, sono tutti punti intermedi di un unico campo che è quello, appunto, della felicità. Questi punti li puoi inserire nel tuo data base, puoi usarli per costruire un ragionamento scientifico, per accogliere anche nelle RSA una medicina della cosiddetta evidenza. Il Mondo Reale comprende il vecchio, i suoi luoghi, la Società che te li affida e di fronte alla quale hai il compito di far salute risolvendogli il problema di non doversi tormentare per curare i suoi malati.

 

Non è sufficiente non farli cadere per fare salute. Dopo che ne avrai misurato la sarcopenia, dopo che ne avrai iniziato a rallentare il declino, dopo che avrai visto che sopporta bene il neurolettico, far salute vuol dire evitare che si disperda. Non è sufficiente introdurre i serotoninergici per evitare i suicidi, ma è vincente per ridurre la mortalità dei depressi dare agli psichiatri ed ai geriatri il telefono per richiamarli se si disperdono.

 

Allora la RSA deve essere pensata, organizzata nel SSN, prima di tutto come un elemento nuovo ed implementante il dualistico ed insufficiente attuale livellamento dell’assistenza. Esistono oggi il livello ospedaliero (specialistico) ed il livello territoriale (di base con integrazioni specialistiche). La residenzialità è un terzo elemento o livello reso indispensabile dalla trasformazione epocale che gli ospedali stanno subendo e dalla inevitabile trasformazione delle relazioni di aiuto sviluppatesi nelle case di riposo, un tempo nate per sollevare economicamente i poveri (perché l’alloggio in comunità costava meno che la domiciliazione in casa propria) e poi sviluppatesi per compensare la perdita di autonomia psicofisica del vecchio. Davvero poco importa se nel privato o nel pubblico, se vi si giunge per una residualità psichiatrica, internistica o neurologica. Non importa la categoria diagnostica del passato, ma il bisogno del paziente e l’appropriatezza dell’organizzazione di fronte ai bisogni degli ospiti. A grandi linee possono dividersi tra bisogni che richiedono funzioni specialistiche e bisogni senza necessità specialistiche. È sempre e comunque un luogo dove si cura e quindi si produce attività sanitaria e socio-sanitaria.

 

Pertanto le RSA non possono essere un’organizzazione distrettuale. Il Distretto fa tutela, ha il compito importante e prioritario di una equa distribuzione delle risorse tra gli assistiti e quindi di acquistare le cure più appropriate nel contesto delle offerte pubbliche o private più vantaggiose in termini di costo/beneficio. Il Distretto non può avere competenze geriatriche, tanto meno la loro organizzazione che richiede afferenze a studi in cui predomina la cultura clinica piuttosto che quella della gestione igienico-organizzativa.

 

Bernabei ha colto bene questo aspetto; Guaita con orgoglio difende la cultura che la geriatria sommersa ha ricavato dai meandri del sociale riappropriando alla sanità (pur chiamata un po’ troppo socio-sanità) il dovere di curare le persone malate, cronicamente relegate negli istituti; Trabucchi ha lottato per ritrasferire alla Medicina il compito di individuare e riconoscere la patologia geriatrica, presuntuosamente abbandonata da molti geriatri che si sono divertiti a giocare con le malattie piuttosto che a curare i vecchi malati; io cerco di far affermare la residenzialità quale articolazione organizzativa vantaggiosa, in un sistema in cui il geriatra operi al suo interno, ma anche all’esterno: sul piano clinico perché esiste un processo decisionale all’indicazione al ricovero residenziale che è fondato sui principi dell’inquadramento multidimensionale geriatrico e tale cultura è ancorata al sapere, al saper essere ed al fare del geriatra che sia interno alla RSA, che sia ospedaliero o addetto alle cure domiciliari; sul piano organizzativo perché l’operatività, ospedaliera, domiciliare, residenziale è qualificata dalla chiara (quanto possibile) distinzione di interventi di livello assistenziale differenziato; sul piano economico-sanitario perché la distinzione degli interventi in relazione alla appropriatezza dell’uso delle risorse organizzate nei vari setting è un elemento fondamentale per rispettare principi di uguaglianza e di razionalizzazione economica.

 

“Questa lettera è stata scritta alcuni anni fa per sostenere che la Geriatria contemporanea deve adattare i suoi interventi alle esigenze che derivano dai progressi della Gerontologia ed in particolare della Gerontologia Sociale. Il cliente del geriatra è mutato dall’inizio della diffusione della Geriatria ad oggi. Il mutamento è iniziato da quando, oltre 40 anni fa è nata l’esigenza di tutelare le persone che si ammalavano, non morivano, ma non guarivano: allora le cure ospedaliere elargite dalle Mutue non concedevano cure superiori a sei mesi. Di lì si iniziò a ragionare per creare una organizzazione, tra il sociale ed il sanitario che fosse sede di una disponibilità di cure senza limiti di tempo, adeguata alla nascente epidemia della cronicità: nacque il termine di Residenza Sanitaria Assistenziale.

 

Nei molti anni di lavoro ho compreso che dietro a questo fenomeno poteva celarsi la tutela degli altri, non del vecchio malato. È spesso capitato, più nel Nord che nel Sud del nostro Paese, che il ricovero prolungato in RSA servisse più agli altri, liberati dalle fatiche di assistere il malato a casa. A tal punto il compito del geriatra della RSA si è esteso e per curare il suo paziente ha dovuto occuparsi di sostenere gli altri perché lo accettassero, organizzando i servizi di assistenza al domicilio, costruendo un’immagine di ricovero per curare piuttosto che per custodire. La RSA si è sviluppata, pur con modalità varie nelle diverse realtà italiane e mondiali, come momento di un percorso di assistenza articolato tra periodi di cura intra ed extramuraria; è quindi divenuta un punto di una rete di servizi, dalla corsia ospedaliera, alla residenza, al domicilio, impostata secondo criteri omogenei di riconoscimento della dignità della vita anche in situazioni di invalidità, informata dalla logica di una cura della persona associata ed integrata a quella della cura degli organi malati, finalizzata a premiare l’impegno a mantenere a casa, a ricoverare per riabilitare o per sollevare piuttosto che per isolare.

 

In alcune sedi ha trovato sviluppo un raccordo attivo tra queste diverse forme dell’assistenza geriatrica nella istituzione dei Dipartimenti di Geriatria, con compiti ospedalieri e territoriali. Il percorso di condivisone di una strategia siffatta ha trovato ostacoli in chi riteneva la Geriatria e soprattutto l’operatività attiva e diretta del geriatra limitata ai setting ospedalieri. Oggi, in Italia ed in tutto il Mondo occidentale si può osservare un progresso importante nel riconoscimento che la tutela della salute del vecchio, e soprattutto di quel vecchio fragile, malato cronico e non autosufficiente sia impostata all’obbiettivo di preservargli la partecipazione al mondo, indipendentemente dalla non autosufficienza. Ritengo questo progresso un motivo che mi dà spinta per diffondere quanto possa essere gratificante lavorare nella cronicità”.

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