1 Dicembre 2009 | Cultura e società

Vecchiaia e povertà


Premessa

La povertà è la condizione che colpisce singole persone, o collettività umane nel loro complesso, che si trovano ad avere, per ragioni di ordine economico, un limitato (o del tutto mancante nel caso della condizione di miseria) accesso a beni essenziali e primari, ovvero a beni e servizi sociali d’importanza vitale. La povertà diventa pauperismo quando riguarda masse che non riescono più ad assicurarsi i minimi mezzi di sussistenza: è questo un fenomeno collegato ad una particolare congiuntura economica che porta al di sotto del minimo di sussistenza una gran parte della popolazione.

 

In altri termini, per povertà si intende l’impossibilità a poter soddisfare i bisogni primari del vivere quotidiano: include gli aspetti nutrizionali, abitativi e igienico-sanitari. Accanto a questa condizione sociale, spesso si affianca un altro elemento, sovente considerato uno spettro: la vecchiaia, collegata, nel pensiero comune, ad un potenziale stato di fragilità. L’insieme dei due fenomeni ha un effetto moltiplicatore, e rischia di avere una carica esplosiva per una società che, sempre più, li nega a se stessa come se fossero tabù. Il vero rischio è che, se non si cerca di vederli nella loro complessità, vecchiaia e fragilità possano rivoltarsi contro di noi obbligandoci, comunque, ad una nuova moderna “rivoluzione culturale”.

 

Maria Luisa Cohen, quasi provocatoriamente, in un suo editoriale ha scritto: “I vecchi che crescono numericamente fanno paura. Sono una minaccia, un peso per la società del welfare, un impedimento al nostro godere pienamente la vita senza la testimonianza triste di un’immagine del declino che ci aspetta, e senza che le spese di una crescente “dependency ratio” ci faccia tutti più poveri. Nonsenso. Una “dependency ratio” dovuta all’aumento degli anziani sarebbe parzialmente compensata da una diminuzione dei nuovi nati, e quindi la riduzione della “dependency ratio” dei più giovani (se siamo cosi fortunati da ridurre la crescita demografica). Ma parallelamente all’odio per la vecchiaia e la decadenza fisica fa riscontro la mitizzazione della giovinezza e della sua forza redentrice. Si teme la riduzione delle nascite come la peste. Eppure l’allungamento della vita, cui si sono sempre tesi tutti gli sforzi della medicina e dell’igiene, è causa di celebrazione”.

 

Al di là di ogni considerazione personale riguardo a tali affermazioni, rimane, nell’immaginario collettivo, la possibilità e la paura, delle persone anziane, di ammalarsi più frequentemente. Questo timore contribuisce ad accentuare tale paura analogamente alla perdita del vigore sessuale, poiché nessuno, uomo o donna, gradisce vedere diminuita la propria attrattiva. Inoltre, la più comune causa della paura della vecchiaia è associata alla possibilità o al rischio di diventare poveri. Infatti, la parola “ricovero”, prospettando la minaccia di dover trascorrere gli anni di vita lontano dalla propria abituale dimora, è fonte di paura per l’anziano.

 

Oggi, la geriatria desidera contrastare questo pessimismo “demografico” (l’invecchiamento della specie) per lasciare prevalere una visione più umana, nel segno di un ottimismo razionale, reso possibile dalle osservazioni chimico biologiche e dalle scelte positive che ogni persona e la collettività possono realizzare. Un ulteriore elemento che può causare la paura della povertà è la possibilità di perdere, con l’età, oltre alla salute, la libertà e l’indipendenza. In questa prospettiva, tutti abbiamo il compito di interrogarci riguardo a tali aspetti del nostro vivere attuale, per saperli gestire, piuttosto che essere gestiti da essi nel tempo.

 

Aspetti epidemiologici

Gli italiani, oggi, sono a quota 60 milioni. Secondo i dati ISTAT, l’incremento della popolazione (497.871 solonel 2007) è dovuto in gran parte all’incremento degli immigrati; infatti, il saldo naturale segna -6.868. Al 10 gennaio 2008 gli stranieri residenti in Italia erano 3.432.651 (+493.729 unità rispetto all’anno precedente), ossia il 5,8% della popolazione totale. Gli stessi dati ISTAT evidenziano che un italiano su cinque ha più di 65 anni e i ‘grandi vecchi’ (da ottanta anni in su) sono il 5,3% della popolazione. I dati sull’istruzione indicano che una persona su quattro ha al massimo la licenza elementare; il 32,4% ha il diploma di scuola superiore, il 10,2% un titolo universitario. Il livello di soddisfazione economica degli italiani è in discesa e si è ridotto al 43,7% dal 51,2% del 2006 (basti pensare che era al 64,1% nel 2001). Nel sud, in particolare, la quota di insoddisfatti arriva al 64,2%. Anche l’attività industriale rallenta, sebbene sia ancora in positivo (+0,5% oggi, +2% del 2006): a crescere sono il tessile e l’abbigliamento (+4,4%) mentre in crisi sono soprattutto concia e calzature (-5,8%). A scendere sono anche protesti (-5,2%) e fallimenti (-16,1%), con un forte addensamento fra le società (91,6% del totale). Segno più si registra anche per la spesa pensionistica che nel 2006 è stata pari al 15,16% del Pil (+0,06 punti percentuali sul 2005), mentre gli assegni di invalidità, vecchiaia e superstiti sono aumentati nel numero (+0,7%) e nella spesa (+4%). (Istat, 2008).

 

Non ci sono dati aggiornati circa la povertà complessiva ma, nella media, il reddito reale e la spesa complessiva delle famiglie si contraggono dal secondo trimestre del 2008. Inoltre, il reddito delle famiglie dei lavoratori autonomi è, nella media, del 15 per cento superiore a quello delle famiglie dei lavoratori dipendenti. Paradossalmente, e senza nulla togliere al dramma di chi perde il lavoro (autonomo o dipendente) e di chi vede il proprio reddito decurtato dalla cassa integrazione, la crisi economica sembra operare un effetto di riduzione delle differenze.

 

La vecchiaia e la povertà nella storia

Per comprendere come nella storia dell’umanità sia stata considerata la povertà, è bene ripensare ai dati rilevati nelle varie epoche. Il sumerologo Noha Kramer, citando un proverbio trascritto tremilacinquecento anni fa a Ur, la capitale dei sumeri, su una delle migliaia di tavolette d’argilla che giacciono catalogate al Museo di Istambul, sentenzia “Per il povero è preferibile essere morto anziché vivo – Se ha pane, non ha sale –Se ha sale non ha pane”. Se questo detto è così trafiggente per chi lo legge, al di là dell’età anagrafica, immaginiamo come può essere catastrofico se ci si riferisce a chi è povero e in piena senescenza.

 

La povertà documentata più nota è quella dell’antica Roma a livello urbano. Si rileva che le fonti sono, come evidenzia lo studioso di storia antica Witthaker, scritte “dai ricchi per i ricchi”. Il lavoratore non qualificato che guadagnava tre sesterzi al giorno (il doppio del soldo di un legionario) ai tempi di Giulio Cesare, poteva essere vicino di casa di Catone Minore, che contava su proprietà per quattro milioni di sesterzi (con una rendita giornaliera di 600 dei medesimi). La condivisione tra ricchi e poveri consisteva nella vicinanza abitativa oltre che nell’esposizione agli incendi e alle epidemie. Esistevano comunque le “tuguria”, vere e proprie bidonvilles poste ai margini dei centri abitati. Da un punto di vista sociale, i ricchi (come Catone) ritenevano che la povertà rientrasse nell’ ordine naturale del mondo. Il pensiero comune dei ricchi era che i manovali, gli operai, gli artigiani, i piccoli negozianti, insomma “il popolo” ed i mendicanti, fossero “canaglia”, ossia cattivi. In questa logica gli schiavi che vivevano nelle domus non potevano essere considerati “poveri”. L’obiettivo della nobiltà romana era quello di manovrare le masse dei relativamente indigenti, “il popolo”, sia sotto il profilo politico sia dell’accettazione della propria condizione da parte degli interessati. Furono escogitati sistemi di assistenza selettiva con il metodo delle clientele, del patronato, con il fine di un controllo che, all’occasione, permetteva la mobilitazione politica.

 

Nel sistema assistenziale del tempo erano completamente esclusi gli schiavi, gli orfani, i derelitti e gli emarginati. Per essi saranno le comunità religiose (ebraiche e delle chiese primitive) ad aprire la via ad un nuovo modello di solidarietà. Poco è risaputo, per quei tempi, della condizione della vecchiaia in povertà. Verosimilmente, poiché l’età media del tempo era intorno ai 40 anni, a causa dello scarso livello igienico e dell’inappropriato livello nutrizionale, vi erano ben poche possibilità che un povero arrivasse alla senescenza. Nella città di Roma, durante il XVI secolo, si svilupparono particolari condizioni politiche, economiche e sociali, accompagnate da saccheggi, pestilenze e carestie, tali da provocare una profonda diffusione della povertà. Il Papa Sisto V, con la sua bolla Quamvis Infirma nel 1587, riprese il progetto di papa Bonifacio VIII di rinchiudere tutti i poveri in un ospizio eretto vicino a ponte Sisto dove internare, a giudizio di un’autorità formata da laici ed ecclesiastici, chi dovesse essere accolto e chi invece autorizzato a mendicare. In quel tempo la licenza di mendicità veniva rilasciata ai poveri miserabili: ciechi, vecchi, inabili poiché “stroppi” ai quali era fatto obbligo di avere un distintivo cucito sulla spalla sinistra e di portare con sé una bolla a stampa che valeva come nulla osta. Dai dati rilevati non sembra che nei secoli successivi ci sia stato un forte cambiamento nella differente distribuzione del benessere tra ricchi e poveri, se non un lento e graduale affermarsi di categorie intermedie che porteranno alla nascita della borghesia.

 

Solo con la diffusione del lavoro salariato, la crescente mobilità della manodopera e l’aumento della speranza di vita (maggior possibilità di vivere una vecchiaia), sorgono delle forme di previdenza per la vecchiaia che, nel tempo, divengono sempre meno adeguate alla nuova situazione sociale, e dove la nascita di una Assistenza pubblica si vide costretta ad assumersi oneri sempre maggiori. Nell’ultimo quarto del XIX secolo, quando le opinioni sul modo di concepire e fronteggiare la povertà cominciarono a diversificarsi, vennero formulati i primi progetti per rimediare alle diffuse condizioni di indigenza degli anziani. Ad esempio, il dibattito che si sviluppò in Germania, che ebbe notevole influsso anche sul nostro Paese, precedette il varo di un’assicurazione di diritto pubblico contro l’invalidità e la vecchiaia (1889). Un altro esempio viene dalla Svizzera, dove questa idea venne riproposta nel marzo del 1890 con l’Assicurazione malattia e per l’Assicurazione contro gli infortuni. Seguirono altre proposte di assicurazioni sociali quali, ad esempio, l’assicurazione contro la vecchiaia. La tradizione della beneficenza ai poveri, ai vecchi e agli indigenti nei secoli dal ‘300 in poi ha avuto un notevole sviluppo in diverse realtà comunali. Alcuni esempi emergono anche nella storia milanese che ha radici antiche rispetto alla generosità verso i poveri. Infatti, già dal medio evo, si contraddistinse attraverso alcune congregazioni quali le opere pie elemosiniere.

 

Nei secoli si trasformarono sia a Milano, come in altre realtà cittadine, in Enti Comunali di Assistenza (ECA), poi in Istituti Pubblici di Assistenza e Beneficenza (IPAB) per trasformarsi nelle attuali Fondazioni ed Aziende di Servizi alla Persona (ASP). Analoghe realtà furono quelle che condussero alla creazione del Pio Albergo Trivulzio, dei Martinitt e delle Stelline. In molte altre città fiorì la solidarietà, a volte proposta da congregazioni religiose, altre volte per iniziativa laica. Un emblematico esempio di attuale impegno sociale presente nella solidarietà milanese è l’associazione “Pane quotidiano”, nato dalla solidarietà spontanea di privati con l’impegno di essere una associazione aconfessionale ed apolitica. Essa, in ottemperanza al motto “fratello, nessuno qui ti domanderà chi sei, né perché hai bisogno, né quali sono le tue opinioni” ha sempre cercato, sin dalla sua fondazione, avvenuta come “Società del Pane Quotidiano” il 3 giugno 1898, di corrispondere al bisogno dei poveri del tempo. Essa nacque dal volere di diverse famiglie e benefattori accomunati da una cultura milanese fortemente fondata sui valori dell’umanesimo laico. Dopo un anno dalla fondazione si registrò un’affluenza di 68.514 bisognosi accorsi per 200 grammi di pane quotidiano. Oggi a Milano vi sono due sedi del “Pane Quotidiano”: una storicamente presente nel cuore della città, che serve 1.500 persone al giorno (il sabato diventano 2.500). Un fenomeno particolare che si è osservato in questi ultimi anni è che gli anziani sono passati da 80 (5.3%) persone al dì a 350 (oltre il 23.3%), di cui 70 invalidi. Nella periferia di Milano è presente un’altra sede del “Pane Quotidiano”, che eroga 1.000 pasti al dì (il sabato divengono 1.500), con un’analoga percentuale di anziani.

 

La vecchiaia e la povertà oggi

Attualmente si parla di povertà assoluta quando un individuo si trova nell’impossibilità materiale di far fronte ai bisogni fondamentali (basic needs) in campo alimentare, nel vestiario e nell’alloggio. Esiste poi una povertà relativa nel caso in cui un bene considerato socialmente necessario in alcuni Paesi, in altri non riceve la medesima importanza: ad esempio, una famiglia può essere considerata povera nella nazione industrializzata, mentre per la nazione in cui vive è relativamente benestante. Secondo dati ISTAT riferiti al 2007, 975.000 famiglie si trovano in condizioni di povertà assoluta (ossia il 4,1% delle famiglie residenti). In queste famiglie vivono 2 milioni e 427 mila individui, ossia il 4,1% dell’intera popolazione.

 

Nelle famiglie dove è presente un anziano la soglia di povertà assoluta diviene del 5,3%. Se l’anziano è la persona di riferimento l’incidenza è pari al 5,6% e sale al 6,6% tra gli anziani soli, che mostrano un valore più elevato di quello osservato non solo tra i single più giovani (3,2%), ma anche tra le coppie di anziani (3,7%). Un’incidenza più elevata si osserva tra le famiglie con a capo una donna (4,9%): nella maggior parte dei casi si tratta di anziane sole (55%) e donne sole con figli (21%). Il nutrimento di un individuo è in stretta correlazione con la sua capacità lavorativa e, di conseguenza, con il suo reddito. Si crea un circolo vizioso del tipo basso reddito-sottonutrizione-basso reddito. Questo principio di economia politica, applicato all’anziano che vive solo diviene ancora più critico là dove non è garantita una base pensionistica adeguata al contesto sociale. Ne deriva che un anziano con un basso reddito adegua i consumi ad un punto tale da ridurre l’apporto calorico-proteico a livelli di rischio per malnutrizione da carenza. Il fenomeno è soprattutto presente nella popolazione anziana di fascia economica bassa.

 

Prospettive future

La maggior parte degli analisti internazionali rileva che la povertà è caratterizzata da privazione, disuguaglianza, ingiustizia, insicurezza e oppressione, cioè da una serie di fattori che insieme erodono il primo dei diritti umani: la dignità di ogni persona. Per questo, la dignità è posta al centro di questa prospettiva. Non è una semplice coincidenza il fatto che la maggior parte dei poveri del mondo siano donne, migranti, anziani, e appartenenti a minoranze etniche o religiose. La situazione economica mondiale sta vivendo un momento congiunturale che è stato paragonato al crollo delle borse del 1929.

 

Secondo il rapporto del 2009 di Amnesty International il mondo è seduto sopra una bomba a orologeria sociale, politica ed economica, innescata da una crisi dei diritti umani. “Dietro alla crisi economica si cela un’esplosiva crisi dei diritti umani“ – ha dichiarato Christine Weise, presidente della Sezione Italiana di Amnesty International. “Il mondo ha bisogno di un nuovo tipo di leadership, di un new deal dedicato ai diritti umani: ha bisogno di azioni e impegni concreti per disinnescare la bomba a orologeria, di investire nei diritti umani quanto s’investe nell’economia. Miliardi di persone sono private di sicurezza, giustizia e dignità. La crisi che le colpisce ha a che fare con la mancanza di cibo, di lavoro, di acqua potabile, di terra e di alloggio ma anche con l’aumento di disuguaglianza, xenofobia, razzismo, violenza e repressione“ – ha sottolineato Weise.

 

Gli esempi di scarsa collaborazione, se non di sfruttamento, tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo, potrebbero essere innumerevoli. Sicuramente si parte da un rispetto per la dignità dei popoli per arrivare ad una revisione del comportamento umano nei confronti dei poveri e delle popolazioni svantaggiate di cui gli anziani fanno parte. Questo principio vale anche per la realtà e l’economia italiana. Lo sviluppo socio-economico deve tenere conto di chi sono i destinatari veri di beni e servizi. Di offrire a ogni cittadino, secondo i propri bisogni e necessità, la risposta specifica. Il percorso che va alla vecchia logica assistenzialistica del “dare qualcosa a tutti” alla nuova logica che indica beni e servizi accessibili commisurati alle necessità, è un compito sociale irrinunciabile per una corretta distribuzione delle risorse. Se questa soluzione non diviene un argomento “forte” nelle mani di chi governa, sarà solo la legge dell’economia che dominerà, ed allora i ricchi saranno sempre più ricchi di beni e servizi (con la protezione assicurativa) ed i poveri non avranno le risposte sufficienti per le loro necessità. Il rischio e la conseguenza, secondo questa logica, è il ritorno all’assistenzialismo.

 

La ripresa dell’economia non sarà equa e non durerà a lungo se i governi non sosterranno i diritti umani che creano e acuiscono la povertà, e se non trasformano i conflitti armati in progetti di solidarietà. La crisi economica non dovrebbe essere presa a pretesto dai paesi più ricchi per tagliare i fondi per l’assistenza allo sviluppo. Nei periodi di difficoltà economica, gli aiuti internazionali diventano sempre più importanti per aiutare i paesi più poveri a fornire i servizi minimi essenziali nel campo della salute, dell’istruzione, dell’igiene e dell’alloggio. I governi possono lavorare insieme per risolvere i conflitti mortali. La nostra storia mostra che la maggior parte delle battaglie che hanno condotto a un cambiamento (dall’abolizione della schiavitù all’emancipazione delle donne) sono nate non dall’iniziativa degli stati ma dall’ostinazione delle persone comuni. Successi come l’istituzione di organi di giustizia internazionale, i controlli sul commercio di armi, l’abolizione della pena di morte, il contrasto alla violenza sulle donne o l’inserimento della povertà e dei cambiamenti climatici al centro dell’agenda internazionale e il rispetto dei diritti degli anziani sono ampiamente dipesi dalla creatività, dall’energia e dalla tenacia di milioni di uomini che hanno creduto a tali principi; essi provengono da ogni parte del mondo. Oltre all’aspetto economico e sociale, ampiamente tracciato, si dovrebbe evitare il rischio di una povertà esistenziale per la mancanza di una visione spirituale e psicologica dell’invecchiamento.

 

In senso spirituale, Bianchi ha scritto “Di fronte alla vecchiaia si tratta anzitutto di accettarla pienamente e questo consentirà di non viverla come tempo di rimpianto e di nostalgia, ma di coglierla come tempo di essenzializzazione e di interiorizzazione proprio all’interno di quel movimento di «assunzione della perdita» che assimila la vecchiaia a un movimento di kénosi (perdersi)”. In senso laico-psicologico CG. Jung scrisse “Ciò che la giovinezza troverà al di fuori, l’uomo nel suo meriggio deve trovarlo nell’interiorità”. La visione spirituale e psicologica si richiamano a vicenda nell’invitare a prestare attenzione anche all’interiorità che accompagna il diritto dell’uomo e dell’anziano a superare ogni povertà e miseria.

 

Conclusioni

Non è facile tracciare delle conclusioni di fronte ad analisi talvolta crude e inusuali. L’analisi economica pura ci indurrebbe a dire “ogni popolo è artefice del proprio destino”. Eppure il problema della povertà è solo in parte un calcolo economico. Nella sua determinazione la povertà di un popolo dipende dal proprio contesto ma anche dalla sfida sulla capacità di “solidarietà” reciproca. Il premio Nobel per la pace del 2006, Muhammead Yunus, scrive “È tempo che la nuova idea del business sociale guidi la prossima grande trasformazione del mondo. È tempo che la visione di un mondo in cui la povertà sia solo un ricordo del passato si trasformi in realtà”. In definitiva, è realistico riconoscere che la vecchiaia sia un momento di verità che svela come la vita sia costitutivamente fatta di perdite, di assunzione di limiti e di povertà, di debolezze e negatività.

 

La vecchiaia, ponendo l’uomo in una grande povertà, lo mette anche in grado di cogliersi nella sua verità, quella che si svela al di là di ogni orpello e di ogni esteriorità. Il dovere sociale degli uomini è cercare di restituire la dignità di vita anche alla fase conclusiva dell’esistenza, e questo rimane il vero senso dell’emancipazione culturale sociale ed economica di ogni civiltà. Una civiltà senza rispetto e dignità per i poveri ed i vecchi è una civiltà incompiuta, frutto solo di ideologie consumistiche o economiche lontane dall’essenza che dà il senso profondo alla civiltà stessa. Si potrebbe dire “è l’economia che è al servizio dell’uomo o l’uomo che è al servizio dell’economia?”. Secondo il tipo di risposta che si dà al quesito si sviluppa, di conseguenza, il modello di società. In pratica, le due componenti spesso coesistono, si scontrano e si rimodellano nella ricerca continua di una civiltà sempre più adeguata all’uomo ed ai bisogni essenziali.

Bibliografia

Istat, a cura di Ruggiero C. Lavoro politica ed economia sociale, 12.11.08.

Bibliografia consigliata

Amnesty International, Rapporto Annuale 2009 sulla povertà. EGA Editore, Roma 2009.

Bianchi E. Le parole della spiritualità. Ed. C. Bose, 2008.

Brugnotti W. I 100 anni del pane quotidiano e qualche appunto sulla povertà. Ed. Soc. d.P.Q.,1998. Muhammad Y. Un mondo senza povertà. Ed. Feltrinelli, Milano 2008.

Paglia, Storia dei poveri in Occidente, Milano 1994.

Rapporto 2007 su povertà ed esclusione sociale “Rassegnarsi alla povertà?” Caritas Italiana – Fondazione “E. Zancan”, Il Mulino, Bologna. Trabucchi M. Invecchiamento della specie e vecchiaia della persona. Ed. Servizi sociali e territorio, 1992.

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