1 Giugno 2012 | Cultura e società

Il proprio sé come luogo della cura

Il proprio sé come luogo della cura

Nel senso comune la vecchiaia è vista con timore e con disagio, sia da coloro che la stanno vivendo, sia da coloro che assistono al processo di invecchiamento altrui. Le ragioni di ciò sono nell’evidenza delle progressive limitazioni che essa comporta, ma anche nella convinzione, a mio parere erronea, che la vecchiaia consista in una stagione bloccata in una fissità che non consente autonomia di cambiamento e di scoperta.

 

Troppo spesso si concepisce e si rappresenta la vecchiaia come una situazione vessata dalle patologie e dall’impotenza. Prevale la visione di un ciclo di vita lineare, rappresentato da una curva cuspidale, nel quale la nascita e la morte costituiscono l’inizio e la fine. La crescita è possibile solo durante il raggiungimento della fase apicale: la maturità, che costituisce la pienezza dell’esperienza vitale. Prima c’è la preparazione, ed oltre c’è solo il declino.

 

In tempi più recenti si è venuta affermando un’altra concezione che rappresenta la vita come una spirale contrassegnata da fasi sempre dinamiche e ricorsive. Nel corso di ognuna di queste fasi si è costantemente coinvolti in processi di adattamento e apprendimento. Vivere perciò significa evolvere e cambiare continuamente. Assumere questo punto di vista é considerare la vecchiaia come una delle stagioni della vita, non solo alla pari delle altre, ma anche ‘contaminata’ e arricchita da esse. Ad esempio, possiamo riconoscere nelle insicurezze o nei turbamenti vissuti in epoche della vita considerate “adulte” o addirittura “anziane” i tratti tipici dell’adolescenza, con il vantaggio di averne già fatto esperienza e con la consapevolezza di averli superati. In questa prospettiva dobbiamo riconoscere che cominciamo a invecchiare dal momento del nostro primo vagito, ma è con l’avanzare dell’età che ci si interroga maggiormente sul miglior modo di invecchiare ed è possibile farlo divenire un’arte. Invecchiare è un’arte di cui si sono perse le coordinate. Tra le altre cose che la modernità ci ha regalato vi è anche un senso di eccessiva onnipotenza.

 

La civiltà delle macchine ci ha abituato ad un sentire rigido e meccanico, entro il quale basta governare la causa perché l’effetto si manifesti secondo la nostra previsione, o il nostro volere. Lo scostamento non è contemplato. L’imprevisto e l’imprevedibile, qualora si manifestino, suscitano fastidio e ostilità. Gli studi più recenti ci raccontano invece dell’importanza che ha per la nostra specie la capacità di adattarsi, intendendo con ciò anche la possibilità di modificare radicalmente il nostro modo di stare nel mondo.

 

Vale la pena di ricordare un termine apparso di recente: “exaptation” (Pievani, 2008). Studiosi legati al neo-darwinismo hanno constatato che per spiegare la varietà biologica è necessario ricorrere a paradigmi di lettura che rendono il modello evolutivo più flessibile e creativo; questi sono: la trasformazione del possibile, l’asimmetria tra utilità attuale e origine storica, la sopravvivenza del più flessibile e gli effetti collaterali della struttura (Pievani, 2008). L’exaptation è l’insieme di questi paradigmi e, in sintesi, si può considerare come una sorta di “bricolage evolutivo”. È certamente grazie a ciò che nel corso del tempo la nostra specie nel suo complesso, e i singoli individui, hanno saputo usare al meglio le risorse ambientali e quelle proprie, con modalità e forme non ripetitive, ma elaborate in relazione alle specifiche situazioni offerte dal contesto.

 

L’adattamento è quindi legato anche alla capacità di inventare, non solo a quella di adeguarsi. Se proviamo a leggere il processo di invecchiamento alla luce di queste nuove ipotesi interpretative emerge chiaramente la parzialità e la scarsa adeguatezza della visione contemporanea che tenta di rappresentare una sola fase di vita: la giovinezza; una sola dimensione: la pienezza dell’esperienza (come se questa potesse esistere senza il vuoto). Entrambe dilatate per tutto il corso di vita. Sembra quasi che tutti i dispositivi di adattamento inventati dalla specie umana nel corso della sua lunga storia sul pianeta siano diventati obsoleti. Le doti evolutive e le capacità di exaptation che da sempre sono state l’impulso della nostra trasformazione sembrano essere state compresse in una sorta di irrigidimento che ne limita la varietà e la molteplicità1.

 

Il desiderio di mantenere a lungo, se non per sempre, la vigorìa e la freschezza della gioventù è sempre stato presente; pensiamo, ad esempio, al mito della fontana della eterna giovinezza. Esistono, infatti, autorevoli testimonianze del passato, talune anche del presente, che ci raccontano di come vivere, e quindi anche invecchiare, sia sempre il risultato di un’attitudine a scegliere e a comprendere ciò che siamo e come collocarci nell’universo2.

 

La curiosità, lo stupore, la fragilità, la duttilità, la capacità di meravigliarsi, la contraddittorietà, l’ambiguità (e l’elenco potrebbe essere ancora lungo) sono considerati spesso modi di sentire poco consoni; sono, in realtà, le chiavi stesse della sopravvivenza, in qualunque età della vita.

 

La vecchiaia

È indubitabile che negli ultimi anni, nell’ambito del nostro contesto sociale, molte cose che hanno a che fare con la vecchiaia siano cambiate: in particolare l’allungamento dell’attesa di vita e la permanenza di una certa prestanza in persone di età avanzata che in altri contesti e in altre epoche erano impensabili. La vecchiaia stessa si presenta come un fenomeno variegato e multiforme che muta in relazione ai contesti sociali, al sesso, alle storie di vita e ad altri numerosi fattori. Nel tentativo di rappresentare questa variabilità è stata costruita una classificazione per fasce di età. Sono state individuate quattro fasce: dai 65 ai 74 anni, gli young old, i “giovani vecchi”; dai 75 agli 84 anni gli old old, i “vecchi vecchi”; dagli 85 ai 100 anni gli oldest old, i “ vecchi più vecchi”; oltre i cento anni, gli over century, gli “ultracentenari” (Cesa Bianchi e Cristini, 2009). È evidente che se all’elemento “fascia di età” si collega il fattore “salute”, le caratteristiche della vecchiaia mutano. Senza quindi negare la rilevanza dell’elemento biologico/fisiologico e la sua influenza sul processo di invecchiamento, si può affermare che è possibile affrontare la vecchiaia in modo creativo, a patto di rompere con i pregiudizi.

 

Le ricerche condotte negli ultimi decenni in psicogerontologia e le recenti scoperte neuro-scientifiche hanno consentito di superare il preconcetto che definiva il processo di invecchiamento caratterizzato unicamente da irreversibile declino, perdite, deprivazioni e rinunce…I pregiudizi connotano persone e situazioni e rischiano di condizionare, di inibire le capacità dell’anziano che diventa inconsapevolmente come il contesto lo vuole” (Cesa Bianchi e Cristini, 2009). Partendo dall’assunto che il problema principale della vecchiaia sia l’idea che ne abbiamo, per affrontarla in modo nuovo è necessario trasformarla traendo ispirazione dalle parole di James Hillman: “Alla mente piacciono le idee. Ne chiede di fresche (…) La mente si tiene occupata rigirando le idee (…)

 

Le nostre idee sulla vecchiaia hanno bisogno di essere sostituite” (Hillman, 2000). Partendo da questa convinzione è nata un’attività, rivolta a persone fra i 50 e i 70 anni, per consentire loro di affrontare il disagio che l’invecchiamento genera, legittimarlo ed avviare una sorta di “lifting” delle idee3. Le domande attorno a cui ruota la realizzazione di questo ‘lifting’ sono: a) che cosa può rendere la vecchiaia o, per meglio dire, il processo di invecchiamento, un’esperienza vitale, creativa e originale? b) in che modo l’aspetto creativo coesiste e convive con la consapevolezza della perdita?

 

L’essere anziani, l’invecchiare, può diventare una scelta, per quanto riguarda il modo. Prova ne è che la nostra epoca cerca addirittura di annullare la vecchiaia con una serie nutrita di pratiche e comportamenti. Alcuni di questi ultimi sono: la negazione (sono ancora giovane); il mascheramento (mi difendo meglio dei giovani); la distrazione (finché posso sono quello di sempre). Essi danno vita a scelte quali il ricorso alla chirurgia plastica, la ricerca esasperata di un’apparenza che aiuti a non mostrare l’età che avanza, il perseguimento o il mantenimento ad oltranza di stili di vita “giovanili” e così via. Questi sono alcuni dei modi per tentare di evitare di affrontare il processo d’invecchiamento, ma ce ne sono di alternativi per cercare di attraversarlo positivamente.

 

Il modo da prediligere e da proporre, a mio parere, è: vivere la vecchiaia come una delle variegate e multiformi stagioni della vita, prendendola, come le altre, con serietà e allegria.

L’attività di gruppo L’età sterza ha confermato che è possibile scegliere il modo di invecchiare. Questa prima esperienza di gruppo ha coinvolto otto persone in un lavoro comune, condotto da due counsellor, che si è sviluppato nel corso di dieci incontri, di un paio d’ore ciascuno4. La metodologia, tipicamente di un counselling con approccio sistemico, ha teso ad accompagnare ciascuno alla scoperta delle proprie risorse, in modo da arricchire la propria visione della vecchiaia confrontandola con quella degli altri partecipanti al gruppo di sviluppo personale. Questo processo ha reso il gruppo una sorta di “incubatore” di nuove ipotesi progettuali, dando spazio alla creatività e alla contaminazione. La dimensione dell’imprevedibilità, che poteva alimentare il timore di un futuro in declino, si è aperta su nuove prospettive.

 

L’incontro fra la cura di sé e l’essere oggetto di cura

Quell’’attitudine, tipicamente vitale, ad adattarsi, inventando modalità originali al mutare dei contesti e/o delle risorse possedute, rischia di essere messa in scacco da un “senso comune” che semplicemente rifiuta l’evoluzione delle forme di vita, riconoscendone solo due aspetti che sono speculari: la pienezza della maturità e il vuoto della vecchiaia. In questo quadro la vecchiaia, deprivata e segnata dall’inabilità, al culmine della perdita, diventa un “oggetto” di cura. Se il soggetto non si è “allenato” ad invecchiare, si porrà più facilmente nella posizione reificata che il bisogno di accudimento sembra richiedergli.

 

Se nei confronti dell’età che avanza abbiamo girato il capo verso un passato, reso ancora più desiderabile e positivo proprio per il fatto di essere “passato”, sarà molto difficile che progrediamo insieme al tempo. Senza dubbio, in ogni fase della vita ciascuno di noi è anche il risultato di ciò che è stato in precedenza; la capacità di prendersi cura di sé, in relazione all’invecchiamento, passa dalla consapevolezza dell’esperienza che si sta vivendo, dalla capacità di assumersi la responsabilità di contenere i propri sentimenti negativi per fare spazio anche a quelli positivi. L’aver intrapreso un simile percorso di consapevolezza è probabile che possa generare una differente modalità di affrontare non solo le situazioni più aspre di deprivazione, quando queste si manifestano, ma anche la loro prospettiva.

 

Tenere insieme il sentimento di disagio legato alla perdita e quello gioioso legato alle scoperte possibili è un esercizio di crescita non facile ma entusiasmante che ha bisogno d aiuto, innanzitutto da se stessi, in secondo luogo dalla creazione di un contesto (il gruppo) che legittimi questa visione, ancora poco condivisa. È possibile che coloro che hanno intrapreso questo cammino di consapevolezza e di scoperta domani possano essere interlocutori differenti per il lavoro di cura. Fra gli operatori e i geriatri, ove si sia venuto affermando l’approccio delle “capacità residue”, questa proposta potrà suscitare qualche interesse.

 

È opportuno sottolineare che essa può essere utile non solo per auspicare un differente atteggiamento da parte dei propri utenti e pazienti, ma anche per sollecitare gli stessi operatoria farsi carico del proprio processo di invecchiamento. L’ipotesi di lavoro che desidero proporre con questo articolo nasce dalla convinzione che tutti noi abbiamo bisogno di imparare ad invecchiare: questa è una “competenza” che ciascuno di noi deve impegnarsi ad acquisire perché è ben diverso occuparsi dell’invecchiamento altrui piuttosto che affrontare il proprio5.

Note

  1. Siamo, in qualche misura, diventati macchine, come paventava un antico saggio cinese. “Mentre Chuang-Tzu stava viaggiando attraverso le regioni a nord del fiume Han, vide un vecchio che stava lavorando al suo orto. Il vecchio aveva scavato un canaletto per l’irrigazione. L’uomo scendeva nel pozzo, prendeva con le sue braccia un vaso pieno d’acqua e poi lo versava nel canaletto; a fronte di una fatica notevolissima, il vecchio otteneva risultati molto miseri. Allora Chuang disse: “Esiste un modo che vi permetterebbe di irrigare un centinaio di canaletti in un solo giorno, mettendovi in condizione di ottenere molto con poco sforzo. Non vi piacerebbe conoscerlo?” Al che il vecchio ortolano lo guardò e disse: “E quale sarebbe questo modo?” Il saggio replicò: “Prendete una leva di legno, leggera sul davanti e appesantita sulla parte posteriore. In questo modo potrà portare su tanta di quell’acqua che finirà con l’andare fuori. Questo marchingegno si chiama pompa da pozzo”. Al che il vecchio ortolano, rabbuiato, disse: “Ho sentito dire da molti saggi che chiunque usi le macchine fa tutto il suo lavoro come una macchina (…) Non è che io non conosca questi aggeggi; il fatto è che mi vergogno ad usarli”
  2. Per tutti basti ricordare due grandi dell’antichità: Cicerone e Seneca, mentre nel presente riteniamo James Hillman un punto di riferimento ineludibile
  3. Dal volantino di proposta de L’età sterza: “… È un gruppo che si rivolge a tutti coloro che, in particolare fra i 50 e i 70 anni, comincino a percepire di essere avviati verso l’invecchiamento, con lo scopo di intervenire sulla mente anziché sul corpo, favorendo una sorta di “lifting delle idee…”. L’esperienza condotta nella prima edizione, svoltasi nell’autunno del 2011, ha confermato l’utilità e l’efficacia della proposta.”… L’obiettivo del gruppo, condotto da Licia Riva, formatrice e counsellor, e da Gualtiero Castelli, counsellor, è quello di supportare i partecipanti ad individuare strategie individuali per vivere al meglio la fase di vita che si colloca al termine della capacità riproduttiva, alla fine del lavoro, al crescere della percezione della decadenza fisica, in una parola: la vecchiaia prossima ventura. La metodologia proposta si avvale del gruppo come strumento e tramite per il lavoro di confronto e di riflessione sulle esperienze individuali dei partecipanti”
  4. L’attività, realizzata a Milano presso il Centro Panta Rei, era ed è aperta a tutti coloro che sono interessati
  5. Questo articolo è nato dall’esperienza condotta, ma anche dal costante confronto con il collega con il quale è stata ideata e gestita: Gualtiero Castelli che ringrazio

Bibliografia

Cesa Bianchi M, Cristini C. Vecchio sarà lei! Muoversi, pensare comunicare. Alfredo Guida Editore Napoli 2009.

HillmanJ. La forza del carattere, Adelphi Editore, 2000.

Pievani T. Exaptation: la biologia dell’imprevedibile. In: Barbetta P, Capraro M, Pievani T. (a cura di) Sotto il velo della normalità, Meltemi Editore, 2008

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