La normalità non è un concetto immutabile, una costante che vale per ognuno: ad esempio la mia quotidianità non è quella di mia sorella, anche se apparteniamo alla stessa famiglia e condividiamo i medesimi valori. Le abitudini sono strettamente legate alle inclinazioni, allo “storico”, alla professione, al luogo dove si vive ecc. ecc.
Nella demenza parlare di normalità diventa troppo spesso sinonimo di negazione. Senza contraddirmi con quanto ho scritto sopra, il concetto da strettamente legato all’individuo assume nei confronti della fragilità un’interpretazione che fa riferimento quasi sempre alla malattia piuttosto che alla persona (come invece dovrebbe essere).
Quando anni fa abbiamo iniziato in diversi luoghi del Paese il Progetto – con la P maiuscola – della “Città amica della persona con demenza”, nell’intervistare le persone malate e le famiglie sul grado di socialità vissuto dopo la diagnosi abbiamo avuto delle risposte praticamente a senso unico: per la persona una volta accertata la malattia si chiudono tante porte.
Da subito le vengono impedite molte (se non quasi tutte) attività che faceva prima e che scandivano la sua giornata. Per proteggerla, per mancanza di informazione, per assenza di supporto alle famiglie, per vergogna. Niente ristorante, pizzeria, cinema, supermercato tanto per citare alcune delle attività cosiddette normali. E andare in vacanza?
La vacanza neanche è stata mai menzionata nelle risposte e ciò fa capire quanto è lontana, come prospettiva, dalla vita della persona fragile e della famiglia, quasi follia. La “follia”, però, quando è sana e poggia sulla conoscenza, abbinata alla visione, costruisce basi per le strade del cambiamento.
Per parlare di normalità vera (non concessa secondo la nostra interpretazione), occorre un cambio di mentalità totale nei confronti della disabilità. Bisogna creare le condizioni affinché, seppure nella malattia, la qualità della vita sia soddisfacente, appunto normale.
Una specie di routine “aggiustata” con grande attenzione, tenendo conto di quella persona in quanto tale che ha le sue attitudini, gusti, passioni, preferenze che non possono essere massificate. Restituire ciò che si è perso non a causa della malattia ma della nostra incapacità, come sistema, di gestirla, è tutto qui il punto.
Il sogno si fa realtà
È con l’ambizioso obiettivo di partecipare a restituire ciò che è stato tolto che è nata l’idea di organizzare una vacanza al mare con persone con demenza.
Una vacanza normale, che per il contesto in cui ci muoviamo è diventata eccezionale.
Sette giorni al mare1, “mescolati” ad altri vacanzieri, abbiamo condiviso risate, sole, pensieri, canti, passeggiate, confidenze, abbiamo incontrato nuova gente e stretto amicizie, tutto esattamente come avviene quando un gruppo di persone sta in vacanza.
La sfida è stata vinta, abbiamo constatato che tutto si può fare, certo, sempre con la dovuta attenzione, competenza, preparazione, impegno (seppure in un clima di assoluta naturalezza), ma soprattutto con il cuore che consente di vedere la persona rispettandola in quanto tale.
Andarci, senza la dovuta assistenza è decisamente troppo complicato.
Ora la nuova sfida da raccogliere è un’altra: fare sì che la vacanza, in sicurezza per persone con disabilità non sia più un evento eccezionale, ma diventi qualcosa di normale alla portata di tutti.
Per mettere le cose a posto dalle fondamenta fino ai dettagli occorre il coraggio, il coraggio di prendere decisioni anche non immediatamente popolari, il coraggio di fare punto a capo, il coraggio di emulare le buone pratiche e metterle a sistema, il coraggio di ascoltare per capire e dare risposte.
Se si ha consapevolezza di una situazione problematica e difficile e non si fa nulla per cambiarla, non si è complici, ma responsabili.
Un appello a tutti: il nostro impegno deve essere maggiore e corale, modificare un sistema che non è in grado di fronteggiare una condizione che sta travolgendo vite e famiglie, diventa imperativo. Basta tavoli, stop a riunioni fiume piene di parole, sì a gruppi operativi che su questa problematica facciano proposte concrete, partendo dall’ascolto del fabbisogno reale, traducendo il tutto in azioni che diano risposte mirate in base alla storia, alla fase della malattia, alle circostanze, alle relazioni.
La storia insegna che un sistema se non si evolve è destinato ad estinguersi, se non avremo la forza, insieme, di attuare il cambiamento, rischiamo di distruggerci tutti, soffocati dalla nube di polvere tossica dell’indifferenza e della solitudine.
Potrebbe essere tutto molto semplice, e con questo non voglio assolutamente sminuire il dramma che si presenta ogni volta che in una famiglia arriva la diagnosi di demenza, ma, con un sistema in rete, con l’informazione e la formazione a tutti i livelli, con una politica reale che risponda al fabbisogno, con una comunità accogliente ed inclusiva, la qualità della quotidianità della persona malata e delle famiglie migliorerebbe di molto. La vacanza, tanto per rimanere in tema, sarebbe possibile non eccezionale, la normalità una condizione di vita.
Intervenire in profondità sulle dinamiche di una collettività, per renderla capace di essere inclusiva, farsi carico delle difficoltà della persona fragile, diviene un obbligo morale per ognuno di noi, qualsiasi sia la nostra professione o ruolo, è un lavoro di squadra, politica compresa, da perseguire e raggiungere, a difesa e salvaguardia della vita in tutte le sue espressioni senza distinzione di stato di salute o anagrafico. Combattere la solitudine vuol dire combattere lo stigma, l’abbandono, l’isolamento, la marginalità e tutte le condizioni in cui le persone fragili e le famiglie vivono.
La vacanza è un piccolo pezzo di un grande puzzle, componiamolo insieme.
Fonte: materiale proprio dell’autrice
Di ritorno dal mare: voci di vacanzieri
Pierina e Mariella (madre-figlia)
Sono molto contenta di essere stata con mia madre in vacanza al mare a Cesenatico.
Condividere questa esperienza assieme ad altri familiari e persone che, come mia madre, sono affette da demenza, stare insieme, ci fa sentire meno soli.
Ho voluto accompagnare mia madre per dividere questa esperienza con lei, il nostro legame è molto forte. Cerco, nonostante le tante difficoltà, di farle vivere questi momenti “indimenticabili”, proprio come è stata chiamata questa vacanza, dove abbiamo vissuto momenti bellissimi, normali, in un clima di grande armonia.
Sapere, e vedere coi miei occhi l’amore, la dedizione, la competenza, l’impegno che tutto il gruppo di operatori ha messo in questa vacanza per restituire alle persone fragili la dignità, mi emoziona e mi riempie il cuore.
Sono stati sette giorni di vacanza vera, che si sono conclusi con la partecipazione all’Alzheimer Fest, che è stato un altro bellissimo momento partecipato e di condivisione.
Ludovica Capponi (Psicologa)
Mi son sentita ripetere in questi mesi che l’esperienza fatta avesse dell’eccezionalità. L’ho percepito nelle giornate prima della partenza, durante la vacanza e di ritorno quando abbiamo condiviso, con altri, i filmati di ciò che avevamo vissuto. Facevo e faccio ancora fatica, però, a riconoscerne questa connotazione. Perché per me era e resta una cosa normale, ma (a quanto pare) incredibile nel suo senso etimologico. Era e resta normale se si riesce a superare l’idea del “non si può più” e ci si impegna responsabilmente per capire “come si può ancora”.
Le emozioni che accompagnano questo impegno sono molteplici: all’inizio c’è la voglia di mettersi in gioco, l’entusiasmo di immaginare quello che non tutti riescono a ipotizzare, c’è convinzione, tenacia. L’abbiamo definita pazzia a tratti ma non credo sia neppure il termine esatto perché c’era un tracciato di consapevolezza (dato anche da esperienze che le colleghe avevano già fatto, seppur in formati ridotti nella formula week-end).
A questo primo momento ne è seguito uno completamente diverso. La sensazione di dubbio che spesso associo ad esperienze importanti. Un po’ come quando una persona sta per intraprendere un sentiero di montagna e prima di chiudere la porta di casa si chiede se ha preso tutto l’occorrente, se non fosse stato meglio scegliere un’alternativa più tranquilla, senza rischi; ci si chiede se il tempo sarà buono, se andrà tutto bene. Ed è un momento che definirei sano perché corrisponde ad un’assunzione forte di responsabilità rispetto a ciò che si sta per fare. Ma chi passeggia in montagna lo sa, questo pensiero dura solo qualche istante: forse ci ricorda che siamo umani. Lo è stato anche per noi. Ci siamo chiesti se sarebbe andato tutto bene, se eravamo all’altezza di una cosa diversa dalle esperienze vissute nella zona di “comfort”, ci siamo chiesti se sarebbe stato bel tempo, se saremmo stati bene, se saremmo stati capaci davvero di rendere normale un’esperienza che sulla carta sembrava eccezionale. A posteriori credo che la risposta alle paure, ai dubbi, alle ipotesi sia assolutamente sì.
Per stare bene basta davvero poco. Quel poco è ciò che conta per qualsiasi persona. Il sentirsi accuditi, riconosciuti, il poter stare in relazione, il poter soddisfare e dare voce a bisogni che sebbene non siano primari (penso al piacere di andar al mare, passeggiare sulla sabbia, fare un tuffo in acqua) sono parimenti fondamentali. Tutto questo c’era ed è stato per il gruppo ciò che ha reso l’esperienza indimenticabile, ricca, emozionante, arricchente. Per noi operatori così come per le persone che hanno partecipato. Se dovessi scegliere una parola che racchiuda l’esperienza direi “elasticità”. Elasticità quella che è necessaria per immaginare un mondo possibile in cui la demenza sia una malattia al pari delle altre che non toglie soltanto, ma dà anche. Elasticità per gli operatori che in queste esperienze sono chiamati a portare un bagaglio davvero variegato di competenze (umane, professionali, relazionali etc.). Elasticità anche delle persone fragili che nonostante possano sentirsi confuse e spaesate nei cambiamenti si sono dimostrate capaci di mettersi in gioco e di af-fidarsi completamente.
Susanna Cipollari (Neuropsicologa)
La vacanza è stata sicuramente un’esperienza che ci ha fatti crescere, sia come operatori che come persone, perché ha abbattuto tante barriere.
La prima barriera demolita è stata sicuramente quella legata allo stigma che ruota intorno alle demenze. Abbiamo ascoltato e dato voce ai desideri delle persone con demenza, perché la malattia non porta via i desideri e soprattutto abbiamo dimostrato, ancora una volta, che la malattia porta via un tipo di memoria che è quella legata agli apprendimenti, una memoria recente legata al quotidiano, ma rimane integra una memoria emozionale, quella che fa apprezzare i luoghi dove la persona con demenza è accolta, sostenuta, accompagnata, dove sperimenta il successo in tutte quelle attività senza sconfitta. Molto spesso i familiari di fronte a proposte come la vacanza, una visita ad un Santuario o ad un museo rimangono perplessi e si chiedono se queste attività possono avere un senso poiché i loro cari non ricordano e non rispondono alle domande relative a quello che hanno visto o fatto.
Alla domanda come è stata la vacanza, rispondo come probabilmente risponderebbe una persona con demenza… direi solo bella, ricca, emozionante, non aggiungerei nessun dettaglio legato a quello che facevamo durante la giornata, perché è irrilevante. Quello che mi è rimasto addosso è una sensazione positiva, difficile da descrivere con le parole. Questo mi accade per molti viaggi che ho fatto durante la mia vita: ricordo i sapori, i colori, gli sguardi, il calore o al contrario la freddezza delle persone che mi hanno accolto e basta questo per ricordare se voglio tornare in un posto.
L’altra certezza che la vacanza ha avvalorato in me è che con la formazione e un atteggiamento adeguato tutto si può fare. L’equipe dei professionisti è stata fondamentale poiché si è mossa in armonia, con professionalità, con motivazione, con passione generando benessere sia nelle persone con demenza sia nei colleghi. Non so ancora come si è creata questa armonia, forse tutti abbiamo capito lo spirito, abbiamo messo in primo piano i bisogni delle persone con demenza e non i nostri, abbiamo dato fiducia ai nostri villeggianti focalizzandoci sulle loro capacità e soprattutto valorizzando l’unicità della persona.
Gioele Petrelli (Psicologo)
Una vacanza indimenticabile – Quando è stato dato questo titolo al progetto, si pensava ovviamente ad un gioco di parole: si accostava l’aggettivo indimenticabile a persone che, proprio per la loro condizione clinica, hanno problemi di memoria. “Bella trovata!”, ho pensato, ma non credevo che quell’indimenticabile potesse essere rivolto anche a noi operatori.
Quando siamo partiti ero pieno di perplessità; guardavo principalmente al lato organizzativo, pratico, “lavorativo” di quell’esperienza, preparandomi ad una gran fatica e un grande impegno. Non stavo ancora guardando quello che idi “umano” che ci sarebbe stato in questo progetto. Non sapevo ancora che invece di un semplice operatore sarei stato punto di riferimento, compagno, amico, addirittura nipote dei nonni temporanei di cui mi sarei dovuto occupare.
Sicuramente questa vacanza sarà indimenticabile per me, le altre persone che hanno lavorato per renderla possibile e per i familiari, che probabilmente non pensavano che i propri cari malati potessero passare una settimana fuori casa. Non so se sarà indimenticabile per i nostri anziani, però qualche settimana fa ho incontrato G., il signore con cui dividevo la camera e di cui mi dovevo occupare principalmente. A distanza di quasi sei mesi, non si ricordava il mio nome e forse non era neanche molto sicuro di dove ci fossimo conosciuti però ridendo mi ha detto: “Ehi, ci facciamo anche la settimana bianca?” e a me questo basta.