5 Settembre 2023 | Cultura e società

Invecchiamento della popolazione e “nuove” malattie neurogeriatriche nell’epoca della medicina della fretta

L’aumento dell’aspettativa di vita ha comportato un cambiamento nell’epidemiologia delle malattie. In passato, le malattie infettive e le carenze nutrizionali erano predominanti, ma ora prevalgono le malattie cronico-degenerative e la fragilità. Gestire questi cambiamenti, che vanno oltre i vecchi modelli causa-effetto, è una sfida complessa, soprattutto per le persone anziane. Questo articolo esplora l’invecchiamento da diverse angolazioni, concentrandosi in particolare sulle demenze e analizzandone varie prospettive.


L’invecchiamento della popolazione mondiale rappresenta un fenomeno di portata storica. Già nel 2011, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) stimò che entro il 2050 il numero delle persone con più di 65 anni sarebbe passato da 524 milioni a 1,5 miliardi, previsioni sostanzialmente confermate successivamente. In Italia, dal tardo ‘900 ad oggi, l’aspettativa di vita è aumentata gradualmente, passando da circa 43 anni agli oltre 80 anni per gli uomini e 85 anni per le donne. Nel 2018 si è registrato il superamento della popolazione di età superiore ai 60 anni rispetto a quella sotto i 30 anni, e si stanno verificando altri cambiamenti demografici significativi.

 

Di recente, nel 2021, l’ISTAT ha previsto per il 2070 una sorta di “incubo demografico” determinato dall’invecchiamento e dalla persistente e progressiva denatalità. Secondo questa proiezione, saremo circa 12 milioni di meno, con un rapporto di 3 tra anziani ogni giovane sotto i  14 anni; allo stesso tempo le famiglie ridurranno la numerosità completando il passaggio “dalla famiglia orizzontale a quella verticale”, in cui possiamo immaginare un/a sessantenne, magari ancora al lavoro, che dovrà prendersi cura da solo/a dei genitori fragili o malati, dei figli, del marito/moglie. Più di una famiglia su tre sarà composta da una sola persona. Accenno al tema della “solitudine amara”, dell’isolamento, che è ben altro rispetto alla cosiddetta “beata solitudine”, in quanto dal 2017 rappresenta un reale fattore di rischio per la demenza (e, ancor prima, un rischio di fragilità).

 

Le conseguenze sociali e sanitarie

C’è una verità scomoda che la scienza ha il dovere di confessare: non siamo fatti per invecchiare, la vecchiaia non è iscritta nei nostri geni, è un fuori programma. L’invecchiamento è stato costruito nell’ultimo secolo attraverso interventi di sanità pubblica, come ad esempio il miglioramento del sistema fognario, la potabilizzazione dell’acqua, i vaccini, gli antibiotici e altri progressi  che hanno portato ad un inevitabile aumento delle malattie croniche e delle persone fragili. Stiamo andando, per la prima volta nella storia dell’umanità, “contro natura” poiché nella natura gli animali più fragili muoiono, non riescono a procurarsi cibo e acqua.

 

Negli ultimi decenni, l’invecchiamento ha avuto conseguenze significative sull’incidenza di varie patologie e sull’organizzazione dei sistemi sanitari e socio-economici. Limitandoci al carico delle malattie neurologiche e sensoriali (demenze, delirium, parkinsonismi, esiti di ictus cerebrale, problemi di equilibrio e cadute, alterazioni della vista, dell’udito) si osserva un aumento inesorabile, preparandosi a diventare uno dei maggiori costi diretti e indiretti per la società. Perché il principale rischio è rappresentato dalle malattie neurogeriatriche?

 

Nel 2022, la Società Italiana di Neurologia (SIN) ha istituito la Prima Giornata Nazionale della Neurologia il 22 settembre, avviando la campagna «Proteggi il tuo cervello, affidati al neurologo». Secondo un sondaggio condotto tra la gente dalla stessa SIN, solo il 13% degli intervistati conosce tutti i sintomi dell’ictus, il 12% quelli dell’Alzheimer (e cosa sanno delle altre demenze? E del delirium?), il 5% quelli dell’epilessia, mentre la percentuale scende al 2% quando si parla di sclerosi multipla e malattia di Parkinson (e cosa conoscono i cittadini dei parkinsonismi?). Le malattie neurologiche occupano, peraltro, il primo posto tra le condizioni, acute o croniche, responsabili della perdita dell’autonomia, rappresentando la metà di tutte le cause di disabilità. In altre parole, la maggior parte delle persone non è a conoscenza della neurologia e dell’impatto economico, sanitario e assistenziale delle diverse malattie neurologiche. Allo stesso tempo, un’altra figura professionale poco conosciuta, il geriatra, l’esperto che si occupa delle complessità (come mi piace definire il suo ruolo e il mio come “neurologo degli anziani”), soffre per il basso numero di posti di specializzazione disponibili, nonostante vi sia quasi il doppio di aspiranti pediatri.

 

L’anziano e l’anziana fragile

Il concetto di salute si è modificato nel corso degli anni. Lo stato di salute non viene più identificato unicamente con l’assenza di malattia, ma con il mantenimento del benessere psicofisico e relazionale pur in presenza di polipatologie. È evidente che l’invecchiamento avviene in modo in modo diverso per ciascun individuo.

 

Il termine “anziano fragile” si applica ad un paziente che spesso viene sottovalutato dalla medicina tradizionale. Fino a pochi anni fa, questo tipo di paziente era numericamente poco rappresentato e non suscitava interesse o gratificazione professionale, poiché veniva considerato incurabile o difficile da curare. La gestione di un paziente fragile richiede una solida conoscenza in campo gerontologico, una grande preparazione clinica unita al “buon senso” e un’esperienza profondamente matura, in cui l’aspetto motivazionale deve svolgere un ruolo fondamentale.

 

L’anziano/a fragile è un soggetto che, più frequentemente di genere femminile, è di età avanzata o molto avanzata e affetto da multiple patologie croniche. Clinicamente instabile e spesso disabile, presenta molte volte problematiche socio-economiche, come la solitudine e la povertà. Si tratta di un essere umano che vive in una situazione precaria, oscillando tra il mantenimento dell’indipendenza e il rischio di gravi eventi patologici e complicanze che purtroppo spesso si rivelano irreversibili. A complicare la gestione clinica di questo tipo di paziente concorre il fatto che le patologie di cui soffre si presentino a volte in maniera atipica, rendendo arduo ogni tentativo di formulare una diagnosi precisa e di conseguenza un trattamento idoneo. Le sue limitate capacità di recupero aumentano il rischio di perdita di peso, malnutrizione, disidratazione, reazioni avverse ai farmaci e di interventi diagnostici e chirurgici.

 

La fragilità rappresenta l’espressione di un’estrema precarietà degli equilibri dell’organismo, causata dalla compromissione contemporanea di più sistemi anatomo-funzionali. Questo deterioramento è dovuto all’accumulo di danni biologici legati all’invecchiamento e derivanti da uno stile di vita inadeguato e dalle malattie in atto o subite nel corso della vita. L’anziano fragile non è in grado di reagire efficacemente agli eventi che disturbano il suo già incerto equilibrio, come ad esempio una temperatura ambientale inusualmente elevata (ricordo la lunga estate calda del 2003, in cui molti  anziani morirono, soprattutto nelle grandi città europee). Anche il riacutizzarsi di una malattia cronica, l’instaurarsi di una malattia acuta anche se di modesta entità (un banale episodio influenzale, una cistite), un evento traumatico sia di natura fisica che psichica, un procedimento diagnostico invasivo o incongruo, oppure condotto senza la dovuta cautela o un intervento farmacologico inappropriato, possono turbare l’equilibrio fragile dell’anziano. Più elevato è il grado di fragilità, maggiore sarà il rischio che fattori, anche apparentemente banali, inneschino una catena di situazioni con esiti catastrofici.

 

Figura 1 – Morte per cascata di eventi

 

NOTA. Questa immagine ci fa rilevare diversi aspetti di cui tener conto: l’età,  il contesto di fragilità biologica, il delirium, il parkinsonismo da farmaci, le cadute, la sindrome da immobilizzazione, la mancata cultura gerontologica della complessità e la complessità creata da farmaci inappropriati.

 

 

La fragilità, in altre parole, è il risultato di meccanismi complessi che, attraverso percorsi variabili e non del tutto noti, compromettono l’equilibrio precario preesistente e predispongono l’anziano a un’evoluzione, anche rapida, verso circoli viziosi o scompensi a cascata, come si può osservare nella ricostruzione di un “banale” caso che esordisce con una cistite febbrile (ma può trattarsi di altro) e può progredire fino alla temibile sindrome da immobilizzazione e persino alla morte (Figura 1).

 

L’invecchiamento e il genere

Le donne vivono generalmente a lungo degli uomini,  tuttavia gli anni di vita in più non corrispondono ad “anni di vita sana” (AVS). In altre parole, le donne tendono a sperimentare un processo di invecchiamento leggermente peggiore e più prolungato rispetto agli uomini. In questo scenario, pertanto, il miglior tasso di sopravvivenza delle donne le espone a diverse situazioni rispetto agli uomini:

  1. un livello di fragilità più esteso rispetto ai quasi cinque “anni guadagnati” in termini di longevità;
  2. un maggiore consumo di farmaci;
  3. risposte diverse ai trattamenti farmacologici;
  4. un’esperienza più frequente di eventi avversi associati all’uso dei farmaci.

 

In un contesto in cui le polifarmacoterapie sono molto diffuse, è importante ricordare che i farmaci sono (e soprattutto sono stati, in passato) testati prevalentemente su persone giovani e quasi sempre di genere maschile, raramente sugli anziani. Di conseguenza, le donne anziane pagano un doppio prezzo poiché assumono farmaci che non sono stati sperimentate in modo adeguato né sulle donne né sulle persone anziane. Le donne anziane, quindi, sono i soggetti che richiedono maggiori attenzioni in campo medico, in quanto subiscono le ripercussioni di una medicina spesso disattenta e superficiale che non conosce la gerontologia e non è adeguatamente preparata a padroneggiare e interpretare le differenze di genere (Gabaglio et al., 2010). Questa medicina è caratterizzata da una passività superficiale, dettata dall’ageismo, il razzismo dell’età («è solo vecchio»), da nichilismo («non c’è niente da fare») da fatalismo («rassegniamoci, accettiamo lo stato delle cose») e da pigrizia mentale esacerbata dall’assenza di cultura e curiosità (“si è fatto sempre così!”).

 

In conclusione, dal punto di vista clinico, la condizione di fragilità si caratterizza per i seguenti aspetti:

  • elevata suscettibilità a sviluppare malattie acute che si esprimono con quadri clinici spesso atipici (confusione mentale, instabilità dell’equilibrio e cadute), e con parziale e lenta capacità di recupero;
  • ridotta capacità motoria fino all’allettamento per astenia e affaticabilità non completamente giustificate dalle patologie presenti;
  • fluttuazioni rapide dello stato di salute anche nel corso della stessa giornata;
  • spiccata tendenza a sviluppare complicanze;
  • elevato rischio di eventi avversi (EA) da farmaci;
  • continua richiesta di intervento medico, frequenti e ripetute ospedalizzazioni, necessità di assistenza continuativa;
  • alto rischio di mortalità.

 

La complessità, le malattie da farmaci e la mutata relazione medico-paziente

L’invecchiamento coinvolge sempre più persone e le malattie stanno cambiando. Parallelamente all’aumentata aspettativa di vita, in incerta frenata negli ultimi anni, si è verificato un mutamento epidemiologico delle patologie: da una situazione in cui erano prevalenti le malattie infettive e carenziali si è passati a una prevalenza di quelle cronico-degenerative e all’emergere della condizione di fragilità. È diventata prassi consolidata gestire la complessità clinica, poiché le malattie croniche negli anziani sfidano il modello di assistenza attuale, che è stato costruito principalmente per le malattie acute e non tiene conto della complessità della condizione dell’anziano, che solitamente presenta diverse patologie e richiede una crescente quantità di farmaci con il passare degli anni.

 

Gestire la complessità al di fuori dai vecchi paradigmi nei quali ad una semplice causa corrisponde un semplice effetto, è un compito arduo. Nella persona anziana lo schema della mono-malattia si avvera piuttosto raramente: la mono-malattia è un avversario contro cui ci si impegna avendo come obiettivo, peraltro, la guarigione. L’obiettivo della medicina per il paziente anziano dovrebbe essere invece, la qualità della vita e non quello della guarigione di tutte le condizioni patologiche di cui di regola è affetto.

 

Accanto a questi aspetti, la relazione tra medico e paziente è andata incontro in modo indiscutibile a crescenti difficoltà, paradossalmente da quando la medicina ha sviluppato terapie efficaci per le malattie e una vasta gamma di macchinari diagnostici. Con la specializzazione in diverse aree mediche, si è passati da medici che “conoscevano un po’ di tutto” a una frammentazione del corpo del paziente e delle conoscenze mediche. Ci si è concentrati sugli organi e non sull’organismo nel suo insieme. Sorge quindi la domanda: chi coordina chi? Nella relazione medico-paziente, quando si verificano diverse malattie, la frammentazione delle competenze può portare a una riduzione delle responsabilità. Le responsabilità si disperdono all’interno del gruppo di medici coinvolti, rendendo difficile identificare chi sia responsabile per coordinare gli accertamenti eseguiti e la terapia globale, solo per citare due aspetti pratici che la medicina territoriale deve affrontare. Inoltre, bisogna considerare gli esami diagnostici: l’illusione di poter risolvere tutto attraverso esami diagnostici e, contemporaneamente, proteggersi legalmente attraverso la pratica della medicina difensiva.

 

Infine, il corpo del paziente viene spesso trascurato dal medico, mentre diventa prioritaria la prescrizione di esami che esplorano gli organi. Richard Horton, direttore di The Lancet 1 ha persino sperimentato questa situazione in prima persona. Non sempre la mancanza di contatto medico-paziente è dovuta solo alla pandemia da COVID-19, ma anche a dinamiche più ampie come la crescente abitudine, da parte della classe medica, ad avviare procedure diagnostiche (ad esempio un’ecografia addominale per una patologia in quella sede) ancor prima di effettuare una valutazione clinica “classica” attraverso una appropriata anamnesi e, in particolare, le manovre consuete di palpazione dell’addome note da decenni), mentre da parte dei cittadini si assiste alla muta assuefazione verso questi comportamenti.

 

Cenni su demenze, delirium, parkinsonismi e “malattie da farmaci”

In questo scenario sanitario che si sta delineando, diventa necessario e urgente migliorare le conoscenze e condividere maggiormente le esperienze tra coloro che si occupano degli anziani. Patologie complesse come le demenze, il delirium, i parkinsonismi e i loro rapporti con le “malattie da farmaci” oltre a richiedere una condivisione di esperienze, richiedono una presa in carico più attenta e completa, che non sia frettolosa o frammentata. Le proiezioni mondiali dei casi di demenza fatte nel 2021 per il 2050 smentiscono le stime precedenti e vendono un aumento a circa 150 milioni di casi. Nel 2021 erano segnalati 55 milioni di casi (Rapporto ADI, 2021).

 

Un altro aspetto da considerare rispetto alle demenze è lo “stigma” sociale ad esse associato. Si è scritto in maniera appropriata proprio su I luoghi della cura nel 2019 (Menghini et al., 2019). È fondamentale sottolineare le difficoltà e gli ostacoli che si incontrano già nelle prime fasi per arrivare a una diagnosi di demenza. Ne accennava Amalia Bruni e colleghe in un numero del 2017 di Psicogeriatria in cui peraltro era stata discussa la vicenda di Robin Williams: “(…)La difficoltà della diagnosi. È il grande problema: solo il 50% dei pazienti con una forma di demenza viene oggi diagnosticato” (Connolly et al., 2011). Gli altri sono fantasmi, nascosti nelle case o nelle RSA, non identificati o al massimo edulcorati sotto terminologie vergognose perché aspecifiche e che nulla hanno da invidiare alle fumose e fantasiose diagnosi degli Ospedali Psichiatrici di una volta che avevano dalla loro come scusante la reale mancanza di conoscenze. Forse le cose stanno peggiorando. Il Rapporto Mondiale Alzheimer del 21 settembre 2021 stima che il 75% dei casi attuali nel mondo non abbia una diagnosi ufficiale, aggiungendo, tra altre criticità, che persino nei paesi più sviluppati un medico su tre sostiene che la diagnosi sia inutile poiché non esiste ancora una cura. Trovo terrificante, ma purtroppo attuale, il fatto di (non) affrontare un tema scottante e in progressivo aumento che riguarda, appunto, le demenze. Ho provato a sintetizzare in parte questi ostacoli e a sviluppare in un articolo precedente le sei dinamiche principali che, secondo la mia esperienza, si contrappongono ad una diagnosi tempestiva.

 

 

 

I sei “non può essere una demenza!”

Di seguito, riassumo brevemente i sei punti principali sopraccitati:

  1. Il “razzismo dell’età” ovvero l’ageismo, rappresenta un ostacolo alla diagnosi (“è vecchio, è normale che dimentichi, che faccia errori…”), poiché spesso si tende a considerare i sintomi legati all’età anziché riconoscerli come possibili segni di demenza.
  2. L’auto-ageismo (“ma dottore, ho la mia età!”; “ma non ho bisogno della badante”; “ma voglio continuare a guidare, sto bene malgrado i due incidenti”). Questi ed altri casi possono essere determinati, aggravati, dalla “variabile impazzita” ovvero dall’assente coscienza di malattia, un aspetto dannoso a sé e agli altri che complica il prendersi cura di una persona con demenza. L’auto-ageismo si riferisce alla resistenza delle persone anziane nel riconoscere e accettare i sintomi della demenza, spesso negando o minimizzando la necessità di cure e supporto.
  3. Le demenze giovanili sono un aspetto importante da considerare, poiché colpiscono persone al di sotto dei 65 anni e presentano sfide diagnostiche specifiche. Inoltre, la malattia può avere un impatto significativo sulla vita lavorativa e familiare dei pazienti giovani. Questi sono circa 4 milioni di persone al mondo allo stato attuale. Si tratta certamente di un evento inaspettato, a volte mentre la persona è ancora al lavoro, e magari subisce mobbing e demansionamento, lavora anche il\la coniuge e fa fatica ad accudirlo\a, i figli non sono ancora indipendenti. Tra le difficoltà diagnostiche, segnalo che persino la demenza di Alzheimer giovanile frequentemente esordisce in maniera “diversa” dai soliti deficit di memoria (Graff-Radford et al. 2021).
  4. Molte persone giovani sono testimonial della malattia. Ho apprezzato Wendy Mitchel nell’autunno del 2019 ad un convegno a Pinerolo, con noi la preziosa Eloisa Stella2. In risposta agli increduli sani Wendy ha affermato, categoricamente: ”Queste dinamiche sono probabilmente dovute al fatto che molti partono dal falso presupposto che le persone con demenza siano tutte uguali… L’approccio stigmatizzante alla demenza sembra inoltre suggerire che siamo tutti uguali nel modo in cui si presenta la malattia a prescindere dall’età in cui riceviamo la diagnosi… Ma soprattutto vorrei precisare che nessuno passa improvvisamente dalla fase della diagnosi alle fasi più avanzate di una demenza, specialmente quando si tratta di una diagnosi effettuata in una fase precoce della malattia”. È fondamentale ascoltare le esperienze e le testimonianze delle persone con demenza, come modo per contrastare gli stereotipi e promuovere una migliore comprensione della malattia.
  5. Il punto 5 è dedicato ai familiari (ma può accadere anche con i professionisti della salute e dell’area sociale) quando in qualche modo contestano e intralciano la diagnosi ritenendo che quella persona stia bene sotto il profilo cognitivo\comportamentale in quanto “ricorda il nome delle mie figlie”; “mi fa ancora bene da mangiare”. Infatti, il coinvolgimento dei familiari può rappresentare un ostacolo quando essi negano o minimizzano i sintomi della demenza, creando difficoltà nel processo di diagnosi e presa in carico.
  6. Infine, “il Mini Mental (MMSE) può mentire”. Succede particolarmente quando l’esaminatore non lo esegue correttamente: suggerisce, fa ripetere la prova sbagliata, tiene conto del risultato numerico non badando al fatto che alcuni punti sono “pesanti” e altri no. “Signora, suo marito ha ottenuto 28 su 30, sta bene”! “Ma come? Se a volte non riconosce la nostra casa?”; “Sta bene: il risultato è nel range della normalità”. Insisto da decenni che “c’è punto perso e punto perso”, alcuni item (richiamo delle 3 parole, errori semantici, copia del pentagono, prova di lettura e conseguente capacità di esecuzione, ovvero chiudere “semplicemente” gli occhi, ecc.) hanno una valenza “negativa” notevole. E ancora, eseguendo l’esame cognitivo breve, è necessario tenere nel debito conto le fluttuazioni cognitive e, utile sottolinearlo, il racconto dei familiari.

 

Non accenno qui alle diverse tipologie di demenze, al vasto e complicato mondo delle conoscenze degli aspetti cognitivi e comportamentali, al ruolo variegato ed essenziale della famiglia, alla possibilità che un quadro di demenza si associ prima o poi a disturbi motori e vegetativo sensoriali (Figura 2).

 

 

Figura 2 – Polipatologia e farmaci

 

Delirium

È probabile che non tutti i professionisti della salute abbiano una conoscenza approfondita del delirium, e ancora peggiori sono le conoscenze dei cittadini e dei familiari stessi. Tuttavia, in questo momento stesso, a Milano, Latina, Lione, Amburgo, Madrid e altrove, almeno il 22% dei pazienti ricoverati negli ospedali è affetto da delirium (Morandi et al., 2019). Possiamo definirlo, in modo sintetico, come uno stato confusionale. Si verifica più frequentemente negli anziani fragili, specialmente se affetti da demenza (anche se non riconosciuta dai familiari o dai medici curanti) ed è scatenato o favorito da varie cause e condizioni. A volte una singola causa è sufficiente, altre volte vi è una cascata di fattori: ad esempio, frattura del femore, anestesia, disidratazione, febbre, anemia, antibiotici, psicofarmaci, cateterismo vescicale, solitudine, contenzione fisica e farmacologica. Indubbiamente, contribuiscono un tessuto fragile, la cronicità, la presenza di molteplici patologie e, non da trascurare, la polifarmacoterapia, tra cui si annidano dei veri e propri “pericoli nascosti”, come i numerosi farmaci con azione anticolinergica, alcuni dei quali sono comuni e noti, come il Buscopan, che possono avere un impatto sulle funzioni cognitive. L’aumento della conoscenza del delirium renderà possibile la sua prevenzione e una cura adeguata, infatti occuparsene è fondamentale: determina un minor recupero funzionale dopo un evento acuto, una maggiore probabilità di istituzionalizzazione, di sviluppo di demenza (o l’aggravamento di questa condizione patologica) e di incremento della mortalità.

 

La malattia di Parkinson (MP) e i parkinsonismi

Rischiando di semplificare fino alla banalizzazione, desidero però liberare il campo dai tanti luoghi comuni che imperversano sull’argomento del Parkinson:

  • Non tutti pazienti con morbo di Parkinson (MP) tremano. Esistono parkinsoniani senza tremore e persone con tremore che non hanno il MP, bensì altre patologie (tremore essenziale – TE; tremore da sostanze tossiche; tremore causato dall’ipertiroidismo; tremore da danni al cervelletto, ecc.). Le forme cliniche di MP che esordiscono senza tremore giungono all’osservazione del neurologo in genere dopo 1-2 anni dall’esordio: questo accade perché il rallentamento motorio (ipocinesia, quasi sempre abbinata a rigidità) è spesso associato a dolori e limitazioni articolari che vengono erroneamente interpretate in senso banalmente “artrosico”, scatenando una sequenza di valutazioni specialistiche non neurologiche, terapie con anti-infiammatori e tecniche fisioterapiche.
  • Numerose condizioni patologiche possono associarsi a sintomi che “simili” alla MP ma che non risentono dei benefici che i parkinsoniani “veri” ottengono dalla terapia farmacologica. I parkinsonismi rappresentano, quindi, un capitolo complesso per le difficoltà già iniziali nel pervenire ad una corretta diagnosi, per le ridotte possibilità terapeutiche e per l’evoluzione clinica più veloce. La maggior parte dei quadri di parkinsonismo sono legati a una degenerazione neuronale determinata da alterazioni patologiche di sostanze presenti fisiologicamente nel nostro cervello. Altri parkinsonismi sono secondari a lesioni cerebrali infiammatorie, traumatiche, tossiche e, soprattutto, vascolari, oppure dipendono dall’uso di alcuni farmaci. In quest’ultimo caso possono essere reversibili se la condizione viene riconosciuta tempestivamente e il farmaco incriminato sospeso (Schiavo, 2014).

Note

  1. The Lancet è una rivista scientifica inglese di ambito medico pubblicata settimanalmente dal Lancet publishing group, edita da Elsevier.
  2. Conduce con impegno da anni il lavoro di counseling e supporto dei caregiver attraverso www.novilunio.net.

Bibliografia

Bruni C. A., Laganà V., Frangipane F., (2017), Il demone nella mente di mio marito, in Psicogeriatria (1):29-37.

Gabaglio L, Manacorda E. (2010), Il fattore X, Catelvecchi editore.

Graff-Radford J., Yong K.X.X., Apostolova L.G., Bouwman F.H., Carrillo M., Dickerson B.C., Rabinovici G.D., Schott J.M., Jones D.T.,  Murray M.E. (2021), New insights into atypical Alzheimer’s disease in the era of biomarkers, in Lancet Neurol, 20(3):222-234.

Menghini V., Rusmini G. (2019), Stigma e demenze., in I Luoghi della cura, n.5 23 ottobre, (www.luoghidellacura.it).

Morandi A., Di Santo S.G., Zambon A., Mazzone A., Cherubini A., Mossello E., Bo M., Marengoni A., Bianchetti A., Cappa S., Fimognari F., Antonelli Incalzi R., Gareri P., Perticone F., Campanini M., Penco I., Montorsi M., Di Bari M., Trabucchi M., Bellelli G. (2019), Delirium, Dementia, and In-Hospital Mortality: The Results From the Italian Delirium Day 2016, A National Multicenter Study, in J Gerontol A Biol Sci Med Sci, may 16;74(6):910-916.

Schiavo, F. (2014), Malati per forza, Maggioli editore.

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