18 Febbraio 2022 | Programmazione e governance

Le strutture per anziani dopo la pandemia e in attesa del PNRR

Nonostante siano state aspramente criticate durante la pandemia, le Rsa rimangono un servizio indispensabile nell’assistenza agli anziani. Lo stereotipo che circonda queste strutture va abbattuto con azioni volte a migliorare la vita dei grandi anziani, ad esempio trasformandole da pure residenze a centri di servizi aperti ed integrati con il contesto territoriale. Centri di riferimento, dove anziani e famiglie possano trovare ogni forma di supporto utile a garantire una vita dignitosa.

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Potranno ancora esistere le Rsa dopo quello che è accaduto in questi ultimi due anni a seguito della pandemia e delle dichiarazioni mediatiche conseguenti?

 

Avranno un senso dopo le dichiarazioni di chi dovrebbe proporre al governo la riforma dell’assistenza agli anziani ed alla luce dei contenuti oggi conosciuti del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza?

 

La risposta è semplice: sì, assolutamente, ci sarà sempre bisogno della residenzialità protetta. L’illusione che l’assistenza ai grandi anziani possa essere trattata esclusivamente a domicilio è, per usare un termine di moda, una fake news, forse funzionale a determinati interessi, chiaramente illogica, ma sicuramente rimane un’illusione per chi conosce veramente la tematica. Se invece intendiamo continuare a far gravare sulle famiglie l’onere della non autosufficienza, così come sugli ospedali ulteriori ricoveri impropri, ovvero sostenere un determinato sistema di servizi, allora chiudiamo le Rsa.

 

Ragionando un attimo, ci possiamo rendere conto della realtà. La mia posizione è netta e faccio fatica ad accettare quello che sta accadendo. Vorrei precisare che oggi le Rsa hanno molteplici facce, ci sono entità pubbliche, moltissime private, molte del privato sociale, non esiste un modello unico, ogni regione norma autonomamente, gli indicatori di accreditamento ed i livelli di qualità divergono, così come le contribuzioni regionali ed i costi delle rette. Questo nonostante i Lea, dichiarati, ma non applicati e finanziati in ogni regione in maniera uniforme. Abbiamo un sistema sanitario ben definito e sostanzialmente gratuito; quello territoriale e sociosanitario sono l’opposto: troppe differenze, troppe diseguaglianze. Il rapporto tra ambito pubblico e privato nei servizi sanitari è chiaro, pur nelle sue diverse declinazioni territoriali, in ambito sociosanitario la situazione è molto diversificata, l’ambito privato prevale nettamente. L’assistenza ai grandi anziani, alla fragilità, oggi è prevalentemente privata: le assistenti familiari, vero asse portante del sistema, lo sono e senza alcuna regolamentazione ovvero senza una diffusa contrattualizzazione; le Rsa sono in maggioranza private, vedremo quale sarà l’esito della co-progettazione tra pubblico e privato su cui si fa fatica a comprendere la modalità reale.

 

Vorrei però introdurre un aspetto di cui pochi hanno dato evidenza. Nelle Rsa oggi ci sono tre tipologie di persone quali riferimenti valoriali: gli operatori, a cui va detto un sincero grazie per l’enorme lavoro svolto in questi anni, alla sensibilità e competenza dimostrata nei confronti delle esigenze di supporto e relazione dei residenti. Nessuno lo vuole riconoscere, ma gli eroi, gli angeli sono anche loro. Ci sono poi i familiari, i quali hanno dovuto accettare la sospensione delle usuali forme di relazione con il proprio caro; la maggioranza ha compreso e collabora attivamente, alcuni, per fortuna l’assoluta minoranza, mantengono atteggiamenti critici e negativi, un po’ lo specchio della società in cui viviamo. Le persone residenti, gli anziani fragili, termine valoriale primario nel nostro lavoro, hanno dimostrato resilienza vera, si sono adeguati, hanno creato all’interno delle residenze forme di relazione e di comunità attiva incredibili. Cito quanto mi disse alcuni mesi fa una signora: “direttor, cosa vuole che sia per noi affrontare la pandemia, noi abbiamo passato una guerra, dove non potevi scegliere, dove dovevi adeguarti e condividere le sofferenze, la pandemia passerà, come è passata la guerra”.

 

Le Rsa nel prossimo futuro

Oggi all’interno delle Rsa esistono le competenze e le conoscenze necessarie ad assistere i grandi anziani, esiste la capacità di una presa in carico dei bisogni e la realizzazione di un progetto di vita della persona. Sono diffuse capillarmente, anche nelle zone rurali, nelle cittadine, nelle zone di montagna. Manca purtroppo una cultura adeguata, in ambito sociale, politico, sanitario. Manca la consapevolezza dei gestori delle strutture di poter giocare un ruolo completamente diverso ed ulteriore rispetto alla gestione di posti letto destinati alla non autosufficienza. Il futuro delle Rsa è la loro trasformazione da pure residenze a centri di servizi all’età anziana aperti ed integrati con il contesto territoriale di riferimento, dove i cittadini possano trovare ogni diversa forma di supporto utile a garantire una vita dignitosa all’anziano ed alla sua famiglia.

 

Lo stereotipo esistente va abbattuto, lo stigma che circonda le Rsa va demolito con azioni dirette a migliorare la vita dei grandi anziani. Questo processo di rivoluzione culturale deve partire dai responsabili delle strutture, essere sostenuto e qualificato individuando alleanze, forme di rappresentanza adeguata ed iniziative tese ad abbattere i pregiudizi, gli opportunismi e le consuetudini esistenti.

 

Il dualismo domicilio-residenze

Io sogno di veder realizzato un percorso di riforma dell’assistenza che parta dai bisogni delle persone e che costruisca percorsi di vita appropriati.

 

Il dualismo esistente oggi tra domicilio e residenze ricorda quello tra servizi sanitari e sociosanitari: sono ambiti ideologici che impediscono lo sviluppo di un sistema di cure integrato ed adeguato. Leggere che i futuri servizi domiciliari si baseranno sul lavoro di infermieri è uguale a dire che il sistema sanitario, prevalentemente ospedalocentrico, è oggi in grado di supportare la non autosufficienza.

 

Le ipocrisie che circondano il nostro mondo sono incredibili, nessuno vuole considerare gli enormi interessi che stanno alla base di scelte che vengono promosse a livello mediatico. Abbiamo un sistema distrettuale strutturato che rimane ancora in larga parte prestazionale, la continuità assistenziale esiste, ma in maniera disomogenea, a macchia di leopardo. L’Adi garantisce oggi una media di 18 ore di assistenza procapite all’anno, il Sad offre modalità di assistenza parziale, e cosa viene proposto? Di incrementare le prestazioni dell’Adi, di raggiungere un numero maggiore di persone o di aumentare a 30 ore l’anno gli interventi. Forse ci dobbiamo rendere conto che la non autosufficienza riguarda 24 ore della vita di una persona, non la mezz’ora dell’intervento di un infermiere e per una durata temporanea limitata.

 

Sembra incredibile dover affrontare queste tematiche, qualunque persona onesta intellettualmente sa benissimo che le proposte del PNRR non modificheranno il quadro esistente in Italia in un contesto di evoluzione demografica ineluttabile. Vedremo cosa emergerà in esito alla coprogettazione, quale sarà l’efficacia di tale percorso, non mi sembra che il sistema del terzo settore sia oggi in grado in maniera omogenea di sostenere servizi domiciliari appropriati. Si tratta forse di qualcos’altro? Di una forma di ulteriore disimpegno dello Stato rispetto a forme di assistenza pubblica, garantita a tutti? Oggi stiamo procedendo verso una sorta di classificazione reddituale di chi potrà accedere a forme di sostegno alla non autosufficienza.

 

Le Rsa come Centri di servizi all’età anziana

Ma sono possibili percorsi alternativi, in grado di migliorare e innovare le forme di assistenza. La mia visione si limita alle Rsa, specialmente a quelle pubbliche, dove il dogma non è ancora quello del profitto, della logica economica quale primario riferimento valoriale. Ritengo possibile che le Rsa possano divenire i punti di riferimento dell’assistenza all’età anziana, centri di servizi a cui i cittadini possano rivolgersi per ottenere i servizi necessari.

 

Quando una famiglia si trova a fronteggiare la non autosufficienza prova un grande disorientamento, pochi hanno preventivamente programmato un percorso. Le Unità operative territoriali comunali, così come i distretti sanitari, non sono dappertutto e mancano quei punti unici di accesso integrati che sarebbero necessari. In ragione delle capacità dei singoli territori esistono disomogeneità che condizionano pesantemente la vita delle famiglie.

 

Personalmente vedo una funzione attiva per le Rsa quali evidenti e strutturati punti di accesso alle diverse forme di supporto alla fragilità in età anziana, partendo dai servizi domiciliari, sino all’abitare possibile, al cohousing, al supporto della tecnologia assistiva e domotica, sino a servizi semiresidenziali ovvero sino a forme di supporto residenziale appropriate e diversificate.

 

Tutto deve partire da un segretariato sociale professionale dove il profilo di bisogno venga valutato in modo competente partendo dalle risorse a disposizione della persona e della famiglia di riferimento, con cui definire congiuntamente un progetto di vita della persona in cui le risorse pubbliche e private si integrino dando rilievo assoluto alla libertà di scelta dei cittadini. Questo processo di formazione partecipata vede il supporto del professionista, sia esso assistente sociale, case/care manager ovvero e ancor meglio, un’equipe sociosanitaria integrata. Vedo in questa progettualità la possibilità di essere realizzata realmente uscendo dagli schemi, dai binari consueti, mantenendo ed integrando la funzione sanitaria connessa ai bisogni legati all’acuzie, sgravando il sistema sanitario ospedaliero dall’impatto che l’età anziana rappresenta attualmente e venendo soprattutto incontro alle esigenze dei cittadini.

 

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza

Le Rsa aperte al territorio e trasformate potrebbero realmente costituire quelle strutture intermedie funzionali a dare un senso concreto ed immediatamente applicabile al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

 

All’interno del piano vengono individuate le Case della Comunità, le Centrali Operative Territoriali e gli Ospedali di Comunità. La logica sviluppata è corretta e propone un rafforzamento sostanziale dei servizi territoriali, sia pur con una caratterizzazione prettamente sanitaria che non condivido per le motivazioni già espresse. Mancano ancora le precise declinazioni regionali rispetto ai contenuti citati del Piano. Rilevo alcuni aspetti ulteriori: il rischio di una sovrapposizione di funzioni e ruoli con gli attuali distretti sanitari e le incertezze legate ai tempi necessari per realizzare ed organizzare operativamente tali strutture intermedie.

 

I bisogni connessi alla fragilità sono attuali, la pandemia ha dimostrato i limiti dell’organizzazione sociosanitaria nazionale. La proposta di utilizzare le Rsa, partendo da quelle pubbliche e maggiormente strutturate, quali Centrali Operative Territoriali dedicate al supporto all’età anziana permetterebbe un’azione immediata e funzionale alle esigenze reali. Le strutture esistono, le competenze professionali pure, sarebbe l’occasione perfetta per dare un senso innovativo alle funzioni svolte dalle Rsa oltre a permettere lo sviluppo e la realizzazione di forme di integrazione sociosanitaria.

 

Se poi vi fosse la lungimiranza di inserire nelle Rsa di maggiori dimensioni dove convivono centinaia di persone, un’Ospedale di Comunità, si realizzerebbero alcune ulteriori innovazioni sostanziali. Sarebbe qualificata l’azione di supporto sanitario nelle strutture, oggi moltissime non dispongono di una direzione sanitaria, vi operano decine di medici di medicina generale che fanno fatica ad inserirsi nel lavoro d’equipe ed a garantire un supporto sanitario adeguato. Si eviterebbero la maggioranza dei cosiddetti ricoveri impropri, che sono motivati proprio dall’assenza della funzione medica di supporto al lavoro infermieristico nelle residenze. Lo sgravio per il sistema ospedaliero sarebbe sostanziale, per non parlare di cosa significhi da sempre per un anziano fragile l’accesso al pronto soccorso o un ricovero ospedaliero.

 

Se arrivassimo anche a dotare tali Rsa di una strumentazione diagnostica domiciliare rappresentata da Ecg, Ecografo e Rx, oltre ad una continua refertazione medica, aumenteremmo a dismisura la qualità di vita delle persone residenti ed il lavoro degli operatori.

 

Si può ben dire che esistono ampi margini per dare senso concreto al ruolo delle Rsa ed alla qualificazione dei percorsi di cura in applicazione del PNRR. Il finanziamento previsto oggi per la trasformazione delle Rsa creando mini appartamenti, proposta pur logica e lodevole, non risolverà le problematiche esistenti e sconterà le tempistiche connesse alle progettazioni e realizzazione di tali ristrutturazioni. E’ indubbio che il futuro dovrà vedere stanze singole, spazi comuni e aperti adeguati, percorsi differenziati, ma penso che valutare la realizzazione della proposta sopra descritta sarebbe molto più utile, efficace e sostenibile.

 

Un’ulteriore ipotesi di trasformazione e innovazione

In questi due anni il termine maggiormente utilizzato dai media per descrivere le Rsa è stato ospizio. Termine usato in senso volutamente dispregiativo nei confronti di chi ci vive e ci lavora, nessun politico, nessun sindacato, nessun illuminato personaggio pubblico ha levato una parola a difesa delle nostre realtà.

 

Devo dire che in questi anni il sistema residenziale, sia pubblico che privato, non ha avuto la capacità di modificare tale stigma. Rimaniamo per il comune sentire istituti, o come dicevano i seguaci di Basaglia, istituzioni totali dove l’immaginario sociale vede poveri vecchietti accuditi, male, da operatori incapaci e disumani. Tutto ciò dipende da pregiudizi antichi che vanno abbattuti. Le nostre residenze sono viste come ambiti chiusi dove le persone anziane vivono in attesa dell’ultimo passo.

 

Penso, provocatoriamente, che sia venuta l’ora di una rivoluzione culturale: oltre ad aprire totalmente le strutture una volta finita la pandemia, integrandole con il tessuto territoriale circostante, perché non pensiamo ad una modifica sostanziale della loro funzione? Oltre alle innovazioni già descritte, vedrei la necessità di uscire dall’esclusiva azione nei confronti degli anziani, di promuovere forme di convivenza, di interazione tra diverse generazioni.

 

Chi ha potuto assistere alle diverse forme di dialogo intergenerazionale tra gli anziani e le giovani generazioni sa quale valore sostanziale per entrambi gli ambiti si sia prodotto. Oggi ci sono ragazzi che non hanno mai visto un anziano, le trasformazioni demografiche e familiari continuano a produrre separazioni generazionali, impedendo di fatto la trasmissione delle conoscenze. Trasformare progressivamente le Rsa in spazi di incontro, di dialogo, di convivenza tra giovani e anziani, allocando magari istituzioni formative, scolastiche o universitarie nelle Rsa, cambierebbe la qualità della vita delle persone residenti e di chi vi lavora. Far convivere generazioni diverse in un ambito comunitario produrrebbe probabilmente notevoli miglioramenti sociali. Se poi fosse la cultura nelle sue varie declinazioni lo strumento utilizzato per la promozione del dialogo tra generazioni sarebbe ulteriore passo positivo.

 

Centri di servizi, di incontro, di promozione culturale, di dialogo, di vita, dove il centro evidente diventa la persona nelle sue diverse età, percorsi di vita, sogni e bisogni. Forse sono utopie, ma ognuno di noi sa cosa rende felice l’animo umano: la vicinanza, il senso di comunità, la fiducia, l’umanità. Proviamo a ragionare onestamente, quando saremo vecchi gradiremo maggiormente poter parlare con una persona o con un device? Forse una maggior enfasi all’aspetto umano rispetto a quello tecnologico dovremmo darlo. Stiamo pensando un po’ troppo in termini meccanici, non dimentichiamo di essere umani.

 

Le assistenti familiari

Il vero ulteriore passo sostanziale per fornire risposte concrete al problema della non autosufficienza in età anziana potrebbe essere rappresentato dall’inserimento delle assistenti familiari nel sistema sociosanitario italiano. Le badanti sono oggi una tra le maggiori forze lavoro in Italia, parliamo di oltre un milione di persone che sembrano essere trasparenti, sconosciute, non considerate. In larga maggioranza non hanno acquisito competenze adeguate, non sono contrattualizzate, non pagano contributi, ma garantiscono il mantenimento a casa dei fragili ed evitano nella sostanza che tale consistente fascia della popolazione gravi sul sistema sanitario pubblico. Probabilmente proprio tale fatto ha motivato la loro enorme diffusione.

 

Mi chiedo poi se qualcuno conosce realmente la vita dei grandi anziani costretti nelle loro abitazioni non accessibili, in compagnia coatta di una persona che magari non parla la lingua o il dialetto conosciuto, che viene normalmente considerata come un intruso. Non è forse vero che il domicilio in molti casi è molto più istituzionalizzante delle Rsa, dove le relazioni e gli stimoli vengono mantenuti, dove – forse non dappertutto, ma sicuramente in moltissimi casi – esiste ancora l’etica dell’assistenza e del rispetto delle persone? Una metafora può essere utile: se in una residenza vista come cesto c’è una mela marcia, ne rimangono sicuramente altre buone, se nel domicilio la mela è avariata, marcisce tutto.

 

Penso sia possibile dare senso al domicilio così come alle Rsa, bisogna partire dalla realtà esistente e riformarla senza pregiudizi, senza mettere in prima linea interessi economici ovvero speculativi ovvero la tutela di ambiti particolari. Sviluppiamo percorsi di formazione delle badanti, inseriamo la loro gestione in ambiti operativi qualificati, magari coordinati dal sistema pubblico, diamo dignità al lavoro di cura e assistenziale, smettiamola di pensare che il supporto alla non autosufficienza si risolva con servizi di carattere sanitario.

 

Pensiamo solamente al fatto che oggi in Italia non abbiamo medici, né infermieri, e non ne avremo per parecchi anni. Pensiamo invece che abbiamo centinaia di migliaia di assistenti familiari che possono migliorare le proprie capacità e competenze, sostenere la domiciliarità se formati, se coordinati da un care manager, se inseriti in un’organizzazione in cui la professionalità e la competenza non siano semplici dichiarazioni. Pensiamo al fatto di poter garantire, in primis alle giovani generazioni, opportunità di lavoro sino al momento del pensionamento, lavoro contrattualizzato ed in grado di tradursi in un percorso in cui il termine welfare possa significare realmente benessere, per le persone fragili, per i giovani, per le famiglie, per non parlare delle esigenze di bilancio dell’Inps.

 

Cultura

Nella mia visione appare chiara la necessità di una rivoluzione culturale, profonda e seria dei sistemi di welfare, del mondo dei servizi alle persona, dell’assistenza. Tale percorso deve però partire dall’essenza delle persone, dalla loro anima, dall’evidenza dei bisogni e non, come accade da decenni, dai soli e particolari aspetti economici e materiali che le diverse lobby promuovono come valori assoluti.

 

La logica del profitto condiziona l’ambito sociale, la valutazione di esito del benessere prodotto dai sistemi di welfare semplicemente non esiste, conta la sola sostenibilità economica con tutte le derivazioni e conseguenze a cui assistiamo giornalmente. L’apertura di una fase di rivalutazione sociale del significato del termine welfare è necessaria, base ineludibile per dare riscontro alla realtà del bisogno sociale. In questo ragionamento dobbiamo porci però una domanda: in Italia, oggi, esiste ancora lo spazio per forme di assistenza pubblica, alla luce delle continue forme di privatizzazione evidente o strisciante dei servizi?

 

“Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale” (art. 38, primo comma della Costituzione). “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti” (art.32, primo comma della Costituzione). Forse dovremo rileggere più spesso queste parole ed avere l’onestà intellettuale di confrontarle con quanto realmente accade oggi.

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